Una strana fiaba – IV – L’uomo albero

Dortoldo sollevò le tavole e i sacchi che lo ricoprivano, e una cascata di polvere bianca lo avvolse. Aveva ovunque su di sé tagli, abrasioni, incornate e altri segni del crollo della Locanda dei Senzastorie.

Tutto era in rovina, non sembravano esserci altri sopravvissuti. Oscillavano poco distanti due corpi abbracciati, come vessillo di morte. Erano precipitati come Dortoldo dal piano superiore, ma a loro era andata peggio. Anziché atterrare sui sacchi di farina, la coppia era stata trafitta da un lungo corno nero di cervicorno, che li aveva preservati in posa d’amore.

Rabbrividendo nel pensare al peggio anche per l’amico stalliere – di Antony il Mago della Cucina non fregava nulla nemmeno alla madre -, Dortoldo scaraventò via le tavole invocando disperatamente il nome di Sacco: – Dove sei?!

  • Qui! – rispose Sacco confuso tra le tavole in volo.

In lontananza, oltre il Bosco dei Cervicorni e l’Altopiano degli Stambecchi di Ferro, il Castello Magico era sotto i primi colpi d’assedio del Rossodisera. Quando le palle di fuoco ne colpivano la torre più alta, silenti bagliori, come di un temporale lontano, illuminavano i volti sconvolti dei nostri due sventurati avventurieri: – Dortoldo, la fiaba è iniziata. Alla Dort-carrozza!

  • Guarda. – esclamò Dortoldo indicando gli oscillanti impalati.
  • Un cervicorno ha abbandonato qui il suo corno. – commentò Sacco incredulo.
  • Lui sta sotto…

Sacco dissentì: – Ma cosa dici Dort, lui sta sopra, sotto c’era lei.

  • Intendevo il cervicorno, – disse Dortoldo nell’apprestarsi a liberarlo, – sta sotto alle macerie con il corno ancora attaccato alla testa. Non vedi che i due amanti si muovono?!
  • Vedo, – disse Sacco, – ma pensavo che il loro amore stesse cercando di vincere la morte.

Dortoldo sfilò delicatamente i corpi, poi li coprì con due porte. Quando ebbe finito, il cervicorno, confuso, si scrollò i detriti di dosso e, dopo aver ringraziato Dortoldo appoggiandogli la testa sulla barba pagliosa intrisa di pianto, gli diede una fucilata con gli zoccoli posteriori e spiccò un gran salto oltre i roveti devastati, nel bosco, nella notte. Dolorante, Dortoldo vide che aveva le natiche in forma fantasma.

La principesca carrozza bianca sfrecciava sospinta solamente da due cavalli; due erano stati fatti a spezzatino dalla marea di cervicorni. Il Castello Armato non era lontano, ma le curve per arrivarvi erano strette e spesso la carrozza finiva su due ruote. Dalla finestrella Sacco osservava il cielo della fiaba incendiarsi e spegnersi in profondi blu stellati: – Vai più veloce, Dort! Il principe Artuno mi starà aspettando!

  • Ci provo, ma ho solo una due cavalli!

Per rispondergli Dortoldo doveva girarsi verso la feritoia della cassa, ma ogni volta che lo faceva, Sacco sobbalzava per una buca o per un sasso, oltre che per lo spavento: – Vai più piano, Dort! Il principe Artuno può aspettare!

Ma poi l’atmosfera si arrossò per una palla di fuoco tale da scatenare addirittura un boato come di tuono. Sacco, temendo di venire impiccato per diserzione, incitò nuovamente il l’amico ad accelerare: – Corri, Dort!

  • Ti vuoi decidere?! – rispose il cocchiere, distogliendo lo sguardo indispettito proprio prima di una curva a gomito.
  • Fermati, Dort!

Su due ruote e due cavalli, la carrozza sobbalzò come per un sasso preso dopo una buca. Sacco bestemmiò ardentemente il figlio del Dio dei Draghi, Drasù. Per evitare il cappottamento, Dortoldo rimise rapidamente gli occhi sulla stradicciola intravedendo qualcosa e, seppur era stata solo la punta della coda dell’occhio destro a vederlo, il suo cuore si arrestò dieci alberi prima degli zoccoli dei tiratori, che ora sbuffavano in una nuvola di terra.

  • Abbiamo investito un uomo, Sacco?
  • Perché lo chiedi a me? Sei tu il cocchiere. Ahia… porca merda che botta.
  • L’ho visto, era pelato e con le orecchie a sventola. Mio dio, sono un assassino!

Quel colpo, quel volto illuminato dalla luna e poi dalle lanterne di serie della Dort-carrozza. Dortoldo ne era certo: lui era lì tra i due alberi della curva a gomito e, Dortoldo, con le ruote messe a coltello a mezz’aria, gli aveva spaccato la faccia. Guardò lo specchietto retrovisore: mano a mano che la nube di terra si diradava, il cocchiere vide che all’altezza della curva a gomito non c’erano altro che i due alberi ravvicinati. Ma la paura non lo abbandonò, Dortoldo era sicuro che sotto a quella stradicciola un ripido burrone boschivo scendesse fino a lambire gli argini di un agitato torrente. Alla velocità a cui andava, poteva averlo scaraventato tra le foglie, poi l’uomo era rotolato giù impattando contro gli alberi ed era stato fatto infine a spezzatino dalla corrente e dalle taglienti rocce del fiume Rivolo.

Dortoldo scese rapidamente i pioli della pedana del cocchiere e corse a controllare, nonostante già vedesse. Con gli occhi sbarrati, i pugni chiusi, il sudore freddo, il cuore ancora immobile e la mente che invece sfrecciava su di una cento cavalli, Dortoldo era certo dell’accusa che si stava muovendo. Aveva solo bisogno di una prova. Sacco lo seguì lentamente, massaggiandosi la schiena dolorante dopo aver sbattuto la porta della cabina una seconda volta. Al primo tentativo, la porta, aperta di rabbia, impattò sulla cassa e gli si richiuse dritta in viso spingendolo nuovamente dentro.

Entrambi guardarono giù dalla scarpata, tra i due alberi: nessun ripido burrone boschivo, ma un dolce declivio verdeggiante di giovani alberelli; nessun agitato torrente, ma un dolce fiumiciattolo lontano; nessun morto investito; questo fu ciò che i due unicamente videro, aiutati dalla luna e da una rincuorante distesa di lucciole sospese, quasi immobili.

  • Non c’è nessuno, Dort, – disse Sacco mettendo all’amico una mano sull’ampia schiena. – Sei solo stanco. I tuoi cavalli anteriori, i due impalati, quell’Antony che ci ha salvati, dopo averci condannati, e tutti gli altri della locanda. Troppa morte in un solo giorno per uno come te, Dorty. Un cocchiere non è un soldato.
  • Ma quella botta che abbiamo sentito?! Cos’era allora?

Sacco indicò a terra, proprio sulla curva c’era una buca seguita da un sasso.

  • E quel volto? Lo ricordo come fosse ora: era calvo, mi sembra, con delle grandi orecchie, credo.

Sacco si guardò intorno, poi corse alla carrozza, prelevò una lanterna e vi illuminò da sopra, da sotto e per ogni sbieco la corteccia dei due alberi, finché nel secondo, proprio all’altezza della testa di un uomo di media statura, non apparve un volto: – Ecco qui! – esclamò Sacco soddisfatto. – Un uomo con le orecchie grandi, questi due rametti di foglie. Calvo, se decidiamo che la testa finisca proprio qui dove la corteccia è più liscia.

  • Hai ragione, – disse Dortoldo riprendendo a respirare, – chissà cosa mi è preso. Andiamo al Castello Armato. Se il principe Artuno non trovasse il suo cavallo, è te che avrei sulla coscienza.

Nel ripartire, Dortoldo si era quasi convinto, e solo un paio di volte fermò i cavalli per controllare che sulle ruote e sotto la cabina non vi fossero tracce di sangue o peggio cervella.

Come quando in un sogno si può essere al contempo il cavaliere che uccide il drago e il drago che viene ucciso dal cavaliere, Dortoldo, che ora guidava ben più lentamente, era assolutamente certo di aver visto quel pedone fiabesco, come era assolutamente certo di non averlo visto. Nella sua mente, laddove la poca realtà esterna si incista nel vasto nulla, dove nella follia le parole plasmano la ragione con mani illusorie, là, quell’uomo c’era ancora. Anche se ora rassomigliava più a un albero.

Il bianco schiniere colpì la staffa tintinnando incertezza. Lo stalliere lo fece calzare e, dando fondo alle sue forze al completo, issò il principesco cavaliere spingendolo per la culet. L’armatura ricadde sferragliando sulla sella e il candido cavallo ragliò la sua paura di spezzarsi in due.

Lo stalliere presentò le sue riverenze al principe e questo partì a spronbattuto senza ringraziare. Sacco era giunto in ritardo, con la chiave delle stalla di Fiordilatte nelle brache strappate, e fin troppe palle di fuoco si erano già infrante contro l’alta torre della principessa.

Lo stalliere guardò il mucchio di merda uscito per lo sforzo al bianco destriero. Era il triplo di quella che produceva normalmente in un giorno.

Sacco prese dalla rimessa pala e sacco e, mentre il corridoio d’onore rompeva le righe, sopra agli scompigliati vessilli caudati riportanti in posa eroica l’armatura stilizzata del bianco principe, lo stalliere osservò cadere l’ennesima palla di fuoco sul Castello Magico in lontananza. Poi raggiunse Dortoldo, ancora perso nei suoi pensieri, ancora seduto al posto del cocchiere. Il suo posto.

  • Dortoldo, – disse Sacco risvegliandolo da chissà quale visione dell’uomo albero, – dobbiamo andare a salvare la principessa.
  • E il principe? Non ci va lui? – chiese Dortoldo non ancora pienamente connesso alla realtà.
  • Il principe Artuno non supererà il bosco, – Sacco aveva strane fiamme negli occhi mentre parlava, – e la principessa Loscia sarà finalmente mia.

Continua…

Due chiacchiere con lo scrittore: quando mi chiamano scrittore mi piace e non mi piace allo stesso tempo. Mi piace perché sono proiettato con la mente verso l’obbiettivo finale di diventarlo; non mi piace perché, semplicemente, ancora mi sento solo un impostore che scrive. Alle volte mi viene l’idea di mettermi sui social a parlare di scrittura, a farmi grande con i nomi dei grandi scrittori del passato, a millantare lezioncine di grammatica elementare spacciandomi per accademico della Crusca, sono sincero, ma poi non lo faccio mai. Non tanto perché non mi piacerebbe spacciarmi per famoso prima del tempo o perché tengo in bassa considerazione chi lo fa, questo mai: abbiamo tutti un posto nel mondo e c’è chi si siede al tavolo all’ingresso, perché ha fame, e chi a quello più lontano, coi crampi allo stomaco. Io non faccio video sulla scrittura per un unico gigantesco motivo: sapete quante ore servono per scrivere un raccontino del genere? Venti o trenta. Non avrei proprio il tempo di editare anche video senza togliere tempo alla scrittura, il mio posto lontanissimo dall’ingresso.

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Il racconto è finito, per ora. Grazie per il tuo tempo e, se ti va, condividilo!

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