La Locanda dei Senzastorie era poco più che una casupola fatiscente nel limitare del bosco. Di vecchie assi di legno, tenute faticosamente insieme da chiodi arrugginiti con la capocchia storta, aveva un tetto esageratamente spiovente di legno più scuro, ovunque costellato di buchi e squarci. Le finestre erano sfondate, quando c’erano, e tutt’intorno la vegetazione nodosa e rinsecchita, rigogliosa di addugliati rovi e pungenti foglie giallastre, anche in estate, dissuadeva dall’entrarvi a bere un goccio chiunque non fosse del posto, della fiaba.
Eppure la Locanda era sempre affollata, seppur di gentaglia. Il vociare di sempre i soliti avventori si sentiva fin dal Castello Armato poco lontano, dal quale la locanda traeva la maggior parte delle lingue che lo provocavano. Lavapiatti della mensa dell’esercito del Bianco Principe Artuno, braccianti agricoli del suo vasto contado, giovani e vecchie governanti di giorno, nonché meretrici di notte, affollavano il sudicio salone principale; e poi stallieri, impestati, sordomuti e chiunque a cui mancasse un arto o qualche rotella erano da sempre i soli benvenuti nella Locanda dei Senzastorie.
Quella sera due loschi figuri incappucciati attendevano la cena al tavolo, tutti gobbi a causa degli alti sgabelli e del basso tavolino. Sul piccolo palco del Senzastorie – palco… erano un mucchio di cassette di legno buttate in un angolo – suonava un feroce gruppo di bardi dalle melodie metal. I due incappucciati dovevano urlare per farsi sentire.
- Il cervicorno, caro Sacco di Merda, – disse il più grosso dei due all’altro, – è l’animale magico più saporito di tutte le fiabe. Noi, stasera, avremo l’onore di mangiarne il culo, la parte migliore. Pensa che è il taglio preferito di Re Tizzone, per questo resta un solo cervicorno in tutta la fiaba con ancora le chiappe.
- Guarda che lo so, Dortoldo, – disse lo smilzo deglutendo una birra d’un sorso, – non capisco perché devi sempre ripetermi le stesse cose.
Sacco imitò di Dortoldo il vocione calmo e docile: – Il cervicorno è un animale per metà spirituale. Assomiglia a un cervo ma possiede un lungo corno nero di un materiale simile all’onice al posto delle corna. Non si può abbattere, ma solo addormentare, sezionare, affettare e cucinare da vivo. Inoltre, ponendo di staccargli una zampa ungulata col seghetto per cervicorni Sbudel, al suo risveglio quella gli ricrescerà in forma fantasma per permettere all’animale di guidare il suo intero branco alla vendetta. Solo quando il mutilo cervicorno in questione non percepirà più la presenza della sua zampa nella fiaba smetterà di cercarla, così trovando nuova pace nel bosco con quel che di lui resta di tangibile e quel che di lui è ora in forma di spirito perché digerito da qualcuno. – Sacco tornò a parlare con la sua voce: – Piuttosto si può sapere perché ci siamo incappucciati? Ci conoscono tutti qui. Tu sei Dortoldo, il cocchiere del principe, e io Sacco, il cognome lo sai, lo stalliere del suo merdoso cavallo.
Dortoldo alzò la testa e dal soffitto sfondato un solitario raggio di luna, entrato col frullo di un pipistrello, irradiò il suo volto paffuto, la sua barba color del fieno e i cerulei occhi suoi, languidi di rivalsa sociale: – Il cervicorno, Sacco, non è cibo per senzastorie. Se ci dovessero beccare a mangiarne ci butterebbero fuori dalla fiaba e per noi sarebbe la fine. Ma tranquillo, amico mio, così conciati passeremo totalmente inosservati. Ti do la mia parola, ogni fibra di me ne è certa. Fidati. Ne sono certo al centouno percento più uno.
- Buonasera, Sacco. Buonasera, Dortoldo, – disse loro una guardia di basso rango del Castello Armato salendo al vertiginoso piano di sopra con una signora succinta che di giorno faceva onestamente la governante.
Sacco si tolse il cappuccio e imprecò proprio nel mentre del passaggio da una canzone all’altra dei Getto di Lava, e dunque nel più imbarazzante silenzio: – E poi si può sapere a chi è venuto in mente di cucinare qualcosa di così pericoloso come un cervicorno? Altro che esilio. Mio cugino Zappo la Terra è stato mangiato vivo dai cervicorni a otto anni solo per aver addentato il lungo orecchio di uno di loro che aveva trovato addormentato nel bosco. Bisogna essere cacciatori esperti per addormentarli quel che basta per cucinarli, e cuochi esperti per servirli velocemente prima che riaprano i loro spaventosi occhi inespressivi come pietre nere d’onice. Massimo dopo poche ore, il record della fiaba è sei, il cervicorno si sveglia e ti viene ad ammazzare.
Per la disperazione di Dortoldo, in molti avevano sentito le parole di Sacco, e quasi tutti, incuriositi, si erano avvicinati facendo loro cerchio intorno. – Perché non urli un po’ più forte la prossima volta, Sacco di Merda, – si agitò Dortoldo. Solo una ragazza, bellissima da poter sfidare in bellezza una principessa, restò al bancone, sorseggiando acquavite potenziata mentre due energumeni ci provavano da destra e da manca. Aveva i lineamenti decisi e la pelle come il marmo, gli occhi erano abbandonati e si umettava le labbra con l’acquavite senza rispondere ogniqualvolta i due manigoldi la importunavano. In veste bianca, aveva i capelli che sembravano di rosmarino e un seno talmente prodigioso da doverlo tenere appoggiato sul bancone.
- Grazie Sacco, – continuò Dortoldo in preda all’ansia, – non solo quella guardia ci ha visti, ma tu hai appena confessato davanti a tutti. La copertura è saltata. Siamo dei criminali adesso.
- Sono tutti criminali qui, Dortoldo. Ti dirò che se non fai mai niente di male al Senzastorie non ti ci vogliono. E poi il cervicorno stava nel menù! La colpa è di chi lo caccia non nostra.
Un lunghissimo baffo nero, che arrivava fino al pavimento e che spuntava dalla porta del cucinino dietro al bancone, vibrò visibilmente, e uscì fuori rivelando di essere, come l’opposto gemello mustacchio, germogliato dalla guancia anziché da sotto il naso di uno spadellante cuoco pelato in guisa viola, col grembiule bianco puntellato di bruciature e antiche chiazze di sugo: – Ci siamo quasi, lo stracotto di coscio di cervicorno al ginepro e foglie di giallospino in agrodolce è quasi pronto. Trenta ore di cottura, per tre minuti di gusto! Impossibile resistergli!
Sacco e Dortoldo si scambiarono reciprocamente un istantaneo sguardo terrorizzato: – Come trenta ore?! – dissero in coro. – Tu sei un incosciente, cuoco! – continuò da solo Sacco. – Ma poi, chi saresti? E dov’è Panetto, il solito locandiere?
Lo chef si arricciò il baffo guanciale usando l’intero polso: – Purtroppo Panetto è malato. Abbiate fede in me, Antony il Mago. Ho personalmente addormentato il cervicorno con la più potente delle mie pozioni soporifere. Altrimenti, non credete? Già saremmo tutti morti.
Sarà, – disse Sacco alzando un sopracciglio, marrone come i suoi capelli a zazzera, – se lo dici tu. Se sei un mago allora va bene. Su, da’ qua ché abbiamo fame.
Non v’è sapore nelle fiabe che possa richiamare quello che Sacco e Dortoldo accolsero in bocca. La carne di cervicorno era stata addormentata dal mago Antony nel miele per una notte. Dopodiché il mago Antony l’aveva massaggiata per dodici ore, nel silenzio della sua cucina ai primi chiarori dell’alba. Il culatello era stato poi affumicato nel fumo di bacche di ginepro, raccolte a una a una e fumate personalmente dal Mago Antony, per dieci ore. Stracotto nel brodo di giallospino, aveva rilasciato i suoi succhi alle patate, condividendo con esse la dolcezza e la decisione acquisite. Infine, spadellato in una padella di ferro per dargli una bruciacchiata, aveva raggiunto la perfezione. A contatto con la lingua, lo stracotto si scioglieva in brodo nell’acquolina che aveva provocato col suo odore.
- Ti amo, Mago Antony! – disse Sacco spezzando il pane e premendolo entusiasta nelle patate. – È veramente il cibo più buono delle fiabe.
- Grazie, grazie.
- Ma dicci, – intervenne Dortoldo a bocca piena, – sei un mago e lavori in una bettola come questa come cuoco, perché?! Potresti ambire molto più in alto!
Prima di ricevere una risposta, la porta si spalancò: dall’armatura rosso fuoco con l’elmo cornuto di due ceppi accesi capirono tutti che era una guardia Reale di Re Tizzone: – Fermi tutti! Dov’è quel ladro di uno scrostapentole? Eccoti! Antony, sei in arresto per aver cacciato un cervicorno del Re! Ah!
Tranne Dortoldo, nascosto sotto il tavolo basso che ora gli faceva da guscio, tutti rabbrividirono. L’armatura cremisi del soldato era stata impalata dalla schiena al torace da un lungo corno d’onice nero. Poi il soldato, nel dimenarsi, fu sollevato e gettato via urlante da un furioso cervicorno senza chiappe.
- Non sono propriamente un mago, – disse Antony slacciandosi il bottone dorato sul collo, – sono il primo lavapiatti del Re, ma tutti vorrei mi conoscessero come Antony il Mago… della Cucina!
Altre due grida echeggiarono nel sudicio salone e tutti si voltarono verso il bancone: la donna coi capelli di rosmarino si stava slabbrando le orecchie con un coltellaccio da macellaio. Aveva la veste bianca imbrattata del suo sangue e di quello dei due manigoldi: – Questo è quello che accade a chi importuna un’elfa, – disse non appena ebbe finito di farsi le orecchie a punta. Poi l’inquietante figura andò verso il cervicorno, lo accarezzò sul pelo raso del muso grigio e se ne andò. Quando tutti si accorsero che fuori da ogni finestra sfondata o mancante c’era un cervicorno diverso, senza testa, zampe, cosce, schiena, o meglio con queste parti del corpo in forma fantasma, tutti presero a fuggire senza sapere dove nella locanda, mentre là fuori gli inespressivi occhi dei cervicorni si moltiplicavano.
- Ci sono altre guardie reali?! – chiese Dortoldo col tavolino sulla schiena dal quale cadevano piatti e posate. – Non vedo niente da qui…
- Non voglio morire senza rivederla, Dortoldo, – disse Sacco trascinando nel marasma l’amico verso le scale per uno stivale, – alzati in piedi stupido di un cocchiere!
- Ti aiuto io, – disse Antony prendendo Dortoldo per l’altra gamba. – Hai apprezzato la mia ricetta, ti sono debitore!
- Stai zitto, imbecille.
La luna venne oscurata da vecchie assi di legno e un boato risuonò tra i due castelli. La mandria di cervicorni che quella notte investì la Locanda dei Senzastorie era un fiume celestiale di ungulati ululanti che trafiggevano chiunque non calpestassero coi loro zoccoli, reali o fantasma che fossero. Spiccavano dei gran salti da pesci quegli inesorabili animali magici in cerca di vendetta. Alcuni, a cui di tangibile restava solo il corno, saltavano più in alto degli altri, brillando nel fiabesco cielo notturno. Fecero alzare il vento, e una forte folata deviò un drago che passava di lì.
Continua…
Due chiacchiere con lo scrittore: Finalmente sono riuscito a pubblicare il terzo capitolo della mia strana fiaba. Non è stato facile, devo ammetterlo. Chi abbia letto il mio romanzo “Maledetti Poeti”, Zefiro Edizioni, sa che amo modificare la realtà per renderla fantastica, ma finora ho sempre avuto forti difficoltà nel creare tutto da zero. Sto praticamente scrivendo un fantasy ristretto, per ora, anche se poi diventerà una storia di tutt’altro genere, e non ho mai amato i fantasy. Il worldbuilding mi mette ansia, già mi sembra incasinato il mio, di mondo… Inoltre qui ci sono troppi personaggi – il mio preferito è Antony, il Mago della Cucina! – e tutti pensano, fanno, provano qualcosa. Descrivere tutto, immaginare tutto e scrivere tutto non è facile per me adesso, ma spero lo diventi col tempo e con l’esercizio.
