Racconto – Nel 2035

Quando in quel liceo artistico di provincia arrivò il nuovo prodigio, i professori dell’arte, abituati da sempre alle mediocrità avvilenti per la cui istruzione al bello venivano pagati, non poterono fare altro che venerarlo. Disegnini che toglievano valore alla carta su cui erano stati impunemente impressi da pittori senza mani, o pezzi di fango modellati da punk dal piercing facile che avevano avuto il coraggio di definirsi scultori, erano infatti le uniche opere che quei falliti dei loro insegnanti avessero visto uscire dall’istituto durante tutta la propria carriera. Quando andava bene, quelle oscenità potevano variare in inquietanti soprammobili, degni della casa di una nonna morta, oppure in piatti di ceramica con sopra facce arrabattate controvoglia, tutta paccottiglia invendibile anche nel più miserevole mercatino delle pulci. Questo, tuttavia, solo fino alla sua venuta, perché l’arte non si può insegnare né imparare, la si deve avere basculante nelle palle sin dalla nascita.

Lui era diverso dai compagni, le sue mani avevano il potere di plasmare qualsiasi forma con qualsiasi materiale la scuola gli fornisse, e da disegnatore era semplicemente una stampante. Produsse nel primo anno il ritratto di ogni suo insegnante e definì con la creta statue fedeli di ogni suo compagno nei due anni successivi. Poi venne il gesso, col quale modellò arpie in volo su fiumi ghiacciati che gli valsero fama di più talentuoso, nonché giovane, scultore italiano vivente. Il marmo infine lo rese celebre in tutta Europa, tanto che i professori dovettero iniziare ad inventare dei voti da affibbiare a quel genio, sempre in giro per curare la luce giusta da puntare sulle sue creazioni, installate oramai in ogni dove l’arte produceva soldi. La bellezza non sarebbe del mondo se il sole non stesse in quel posto esatto, diceva, o almeno non vi sarebbero i miei occhi così capaci di percepirne l’interezza armonica.

Da come parlava è facile immaginare come scrivesse. Quando doveva stendere un tema, al di là della grafia da amanuense, con poche parole riusciva a modellare storie assurde, tragiche, romantiche, oltre che analisi filosofiche degne dei più citati pensatori contemporanei. Cazzo se lo odiavo quel bastardo. Quando correggevo un suo compito provavo le stesse sensazioni che un pianista professionista, piegato da decenni di pratica ed esercizio, avrebbe provato nel sentirsi superare in bravura da un bimbo cinese di cinque anni con i capelli a caschetto. Quello stronzo era un cazzo di scrittore, oltre che un matematico capace di ricondurre a colpo d’occhio, ogni fenomeno della materia alle forme dell’Iperuranio e ai numeri alla base dell’architettura cosmica. Non c’era quindi da stupirsi quando le equazioni, gli integrali e le espressioni che per un insegnante di lettere come me avevano l’interpretabilità del geroglifico, per lui risultavano semplici calcoli da risolvere nelle pause fra un capolavoro scultoreo e un quadro a olio dell’orgasmo di un santo. Senza contare che siccome era bello, con la sua perfetta frangetta nera e gli occhi lapislazzuli e tristi di chi sa, il suo successo con le ragazze era semplicemente raccapricciante. Ma a lui non importava, lasciandole bagnare in disparte in modo che i sentimentalismi non inficiassero la purezza del suo costante processo creativo. Le donne sono poca cosa, diceva, a me interessa solo fermare il tempo in modo che la loro delicata intensità non scompaia mai. Era pure un poeta, porca di quella puttana scultrice.

Finalmente, però, ebbe quello che meritava per aver deciso di essere migliore di me. Il suo cervello andò in pezzi: crack, rotto. Al consiglio docenti nessuno sapeva darsi una spiegazione di cosa diavolo gli fosse accaduto, ma nel secondo semestre del quinto anno i suoi voti colarono a picco, proprio quando si preparava a iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna per distruggere l’ego di qualche imbolsito acquarellista accademico.

Non studiava più, o meglio, non si applicava più. Negli anni e nei pochi giorni in cui ci aveva dato l’onore di presentarsi a scuola, lo avevamo visto prestare attenzione solo durante le materie mnemoniche, come la storia e il diritto, perché le altre le aveva innate, o preinstallate – fra gli studenti avevo messo in giro la voce che fosse uno dei robot venuti a sostituire noi comuni mortali, l’avanguardia di una nuova era di spocchiosi genietti robot. Ma ora, durante l’intervallo, l’automa si aggirava glitchato con gli occhi fissi sullo smartphone, esattamente come facevano da sempre quei rincoglioniti dei suoi compagni, anche se lui al contrario loro sembrava rapito, catturato, da una visione rivelatrice, piuttosto che da stupidi video di gatti.

La professoressa Emilia Quarta, insigne fica, sosteneva che il nostro piccolo genio stesse attraversando il classico periodo nero da artista maledetto. Di contro, ma con parole a mio modo garbate, mentre la signora si sistemava il reggiseno di pizzo, sempre troppo fuori dalla scollatura perché fosse sempre un caso, le dissi che quella vista, un giorno o l’altro, in barba a ciò che avevo visto in mia moglie nonché al buoncostume scolastico, mi avrebbe portato a toglierle definitivamente quel soppalco gravato da troppo peso. A quelle tette serviva uno scrittore.

Lei fece la solita faccia infastidita per poi liberarsi di me con uno dei suoi ossequi più inflazionati: «Professor Lautizi, lei è il solito pervertito! Si rimetta in forma piuttosto. Mio marito è un atleta, sa?!». «Immagino, con tutto quel peso da sollevare, ahah!». Poi se ne andò finta-offesa sculettando, con una pudicizia tale da permetterle di voltarsi solo una volta nonostante forte fosse la speranza che le guardassi il culo. Ma a me il suo culo non piaceva, difatti ero uno da tette, perché da scrittore anziché da poeta, piuttosto che la fonte notavo cosa da essa sgorgasse.

Il ragazzo fissò il telefono per tutta la mia ora, ma non potevo dirgli nulla. Lui non era come gli altri cosicché il consiglio di istituto aveva votato perché si sentisse completamente libero di esprimere la propria arte, collimante con la sua stessa esistenza, come più preferiva. Questo però non valeva per me, che anziché vivere la mia di arte, dopo aver accompagnato le bambine a scuola, alle otto dovevo essere per forza a lezione se non volevo incombere nelle ramanzine dell’unico preside al mondo che non avrebbe spaventato nemmeno una bidella timida. Seppur innocui, i discorsi della nostra somma carica scolastica erano infiniti, tanto da farmi desistere dall’interpretare la parte del professore ribelle. A una certa si metteva a parlare di se stesso, senza essersi mai impegnato una volta in vita sua al fine di rendere se stesso minimamente interessante: e sono stato a teatro olografico; e l’elettricità della Tesla è aumentata; e non fare tardi, Lautizi; e via piangendo ammonimenti sul nostro profeta dell’arte: e non puoi rimproverare il ragazzo, perché è sensibile, poi non scolpisce più; la scuola avrebbe chiuso se non fosse stato per lui; la famiglia è facoltosa; ti licenzierò anche solo se gli dici A. Effettivamente se si parlava del ragazzo, cambiava tono tradendo le sue origini romanesche, come se da quel giovane artista dipendesse la sua stessa carriera. E così era.

Tuttavia io dovevo fare lezione e se anche per tutta la vita le case editrici non mi avevano ascoltato, il mio quinto non doveva osare fare lo stesso. «Ragazzi, state tutti attenti un attimo, devo dirvi una cosa molto importante.» Per paura di un’interrogazione a sorpresa, tutti trasalirono dai propri cazzi sul telefono. Anche quei leccaculo che solitamente mi fissavano con attento rispetto per due ore, facendo almeno finta di ascoltare, drizzarono le orecchie come risvegliati da un sonno antico. Tutti, tranne lui: lui guardava lo smartphone. «Sto parlando a tutta, e dico TUTTA, la classe!» Niente. Come avrei voluto avere un gessetto da lanciargli, anche se ero certo lo avrebbe scolpito al volo e tutti gli avrebbero detto bravo. Mi alzai, sistemai i pantaloni tirando su la cinta fino alla pancia pensando che presto mi sarei dovuto mettere in forma, e andai dritto verso il signorino. “Si fotta il preside” Pensai, mentre dissi: «Devi stare attento come tutti! Nolan, dico a te! A!» Risatine e sberleffi provennero allora dall’aula verso la mia sacra autorità. Anche se per l’intera lezione tutti erano stati col telefono in mano almeno una volta, lui non poteva più farlo. Inoltre, convinto che il video che per giorni lo aveva ammaliato riguardasse una bella donna, ero troppo curioso di vederlo anch’io. Gli sottrassi il telefono: avevo ragione. Stava guardando una ragazza esibirsi in un canto, ma non potevo sentirne la voce perché le cuffiette le aveva indosso il suo spasimante digitale. La tipa era giovane, carina e inquietante, mi ricordava qualcuno. Eppure a differenza di quel qualcuno, niente tette, peccato. Senza rendermene conto, avevo rivisto il video diverse volte per intero. Rinsavito, con difficoltà, esclamai: «Ragazzo, capisco tutte le tue necessità, soprattutto questa, ma non durante l’ora di letteratura, non lo permetto!». I lapislazzuli fenderono allora il buio dei suoi capelli e mi offesero uno sguardo di sfida: «Ridammelo, panzone scrittore fallito», mi disse. Le risatine si fecero clamorose e gli sberleffi… insostenibili. Senza vederli, potevo sentire gli occhi dolci delle studentesse fantasticare verso l’eroe che aveva appena sfidato l’ordine costituito, il docente panzone Franco Lautizi.

«Non sono un panzone, hai capito?! Non osare ripeterlo mai più!»

«Io non sbaglio mai nel comprendere le forme, panzone. Dammi – il – mio – telefono, panzone!»

Come mosso dal mio animo ferito, mi avvicinai alla finestra spalancandola e urlai: «Va-ffan-cu-lo, coglione!»

«Non farlo!» Implorò il genio, «Non privarmene!». E il telefono volò dal terzo piano, colpendo, dal tonfo di ritorno seguito da un’imprecazione in un italiano stentato, un’auto parcheggiata nei posti riservati al personale. «Ragazzo, ti sarebbe bastato fare attenzione solo per un attimo per essere solo per un attimo come tutti gli altri, ma no! Lui è diverso, è migliore! Ebbene, sono stanco. Tu sei come tutti noi, capito?!»

«Hai appena lanciato dalla finestra la cosa più bella che io abbia mai percepito, panzone.»

Alla prossima bugia sul mio girovita scolpito da decenni di ossequiosa fedeltà al vino, a volare dalla finestra non sarebbe stato un telefono. Ma il ragazzo uscì dall’aula sbattendo la porta dietro di sé, piangendo. Avevo appena rotto un diamante.

La classe farfugliava invettive contro colui che aveva dissacrato un santo e qualcuno dei membri ero quasi certo avesse girato un video dell’intero sopruso – era probabile, visto che praticamente tutti impugnavano lo smartphone a coprirsi il viso, come facevano le ragazze nei selfie quando ero giovane. A salvarmi fu la campanella. Il bidello Annibale, detto Il Cartaginese, mi avvertì che il ragazzo se ne era andato di corsa, lasciando cadere dietro di sé lacrime celesti da prima donna – devo ammettere che Annibale non usò proprio queste parole, bensì piuttosto “Ragazzo scappato, io cattura se tu convinci preside di comprare me scopa nuova e dici-mi chi spaccato parabrezza!» Io risposi che non sapevo chi fosse stato e di stare tranquillo per l’allievo, perché stava certamente andando a scolpire il cazzo che me ne fregava. Infine, sentendomi in colpa per l’auto, gli promisi una scopa nuova.

Uscii dall’istituto e tornai a casa, non avevo più voglia di sorbire quel brusio giudicatore. Ma a casa c’era mia moglie.

«Franco, devi portare il gatto a fare i suoi bisogni.» Mia moglie non lavorava e io dovevo portare il gatto a pisciare. «Vestilo, sennò si raffredda.» Non credo che alcuno scrittore prima di me fosse stato mai costretto da quella che fu la sua musa a far indossare quattro piccoli calzini rosa al proprio gatto. Tuttavia, giostrando con l’esperienza gli artigli da mistress che l’infelice felino si ritrovava, riuscii nell’impresa. Era obeso e sembrava sapere tutto lui. Pisciava con regalità, distacco e consapevolezza nonostante le sue mutile possibilità, mutile, perché Elettra aveva insistito per castrarlo. Quel coso aveva tutta la mia solidarietà.

Notai che il preside mi aveva inondato di olo-messaggi che riprodussi solo per sincerarmi di non aver beccato una denuncia: «Franco, cosa gli hai detto! Quel ragazzo è partito!» Incredibile come la tecnologia-olo fosse riuscita, in un solo decennio di sviluppo, a trasmettere così fedelmente l’inutilità e il servilismo di quell’uomo. Presi il gatto con entrambe le mani e lo sollevai scuotendolo, in modo che l’urina pungente rimasta nel bianco folto del suo pelo non fottesse il parquet, fottendo me. Poi lo lanciai in casa dalla finestra – «Franco!» – e andai a prendere le bambine con la mia fidata Tesla Virgola del ’24. Ottima vettura, tranne per il fatto che l’algoritmo obsoleto, oltre a non capire un cazzo, non riusciva mai a interrompere gli acquisti in App. Quindi era meglio non rivolgerle parola se non si voleva ricevere a casa l’atto di acquisto di una multiproprietà in Brasile.

Il giorno dopo non fu dei migliori.

«Franco, il ragazzo è morto!» Strillò Emilia non appena arrivai, correndo ballonzolante verso di me. «Perché non hai risposto al telefono?!»

«Mi fa rabbrividire il pensiero che il preside sia un uomo come me, non voglio vederlo. Il genio si riprenderà, tutti nella vita abbiamo perso un Metaphone.»

«Ha lasciato una lettera struggente alla famiglia, la più triste e romantica che io abbia mai letto!»

«Nooo, non dirmelo, incredibile! Devo andare in classe, bella. Vedrai che presto il giovane incompreso dal suo docente leggermente sovrappeso tornerà a farci sentire tutti come parti scenografiche delle sue giornate.»

Ma lei, chinata verso di me in modo tale che non riuscissi a guardarla in viso, continuò con l’apologia del piccoletto: «Parlava di una cantante armena che avrebbe raggiunto dopo averne scolpito le voci, del suo amore incondizionato verso la musa ritrovata e del fatto che ieri ha sentito di perderla a causa tua e non vuole che questo accada mai più a causa di nessuno.»

«Cosa non si fa per una scopata. Cazzo, la scopa per Annibale! Se è venuto a sapere del colpevole e non avrò nulla per ammansirlo, quell’elefante mi stritolerà…»

Il grosso e grasso bidello tunisino fu infatti il secondo a sbarrarmi la strada: «So che tu ha buttato telefono su mia nuova Tesla. Macchina costa, tu ripaga. E dov’è mia scopa?!».

«No, è stato preside. Ripaga lui, perché ha detto che Annibale è solo stupido bidello che nemmeno passa bene scopa. Mi ha detto lui di no portarla te, io avevo comprata te!» Sospettoso, mi lasciò passare giusto perché dovette lasciare libera l’entrata agli studenti.

«No finisce qui, Lautizi, io spacca culo prima a preside poi a te!»

La terza volta, davanti alla mia classe, fu il preside stesso a bloccarmi. Piccino e magrissimo, parlava dialetto romano stretto. Doveva essere furibondo.

«Lautizi!»

«Preside, la reclama il bidello.»

«Come hai potuto?!»

«Preside, ne parliamo dopo la lezione… comunque giuro che quel ragazzo stava fotografando il culo di una compagna per farne una scultura. Sa, io sono come lei, un padre di famiglia vecchio stile! Lei, insigne uomo d’onore mi capirà! Noi ci capiamo! Siamo come compagni di ventura!»

«Professor Lautizi, questa volta non posso passarci sopra.»

Ma in quel momento, approfittando del fatto che tutti i ragazzi fossero entrati nelle classi, fu Annibale a passare sopra al preside, afferrandolo da dietro la giacca argentata come un gattino per poi trascinarlo a mo’ di sacco verso un triste destino. Nell’altra mano, Annibale impugnava una vecchia scopa che la sabina pelata fissava terrorizzata come si fissa la falce della morte. «No ti piacerà quello che farò te! » Il preside mi guardò e pianse nello scomparire dietro l’angolo del corridoio costellato dai quadri del profeta, verso la rimessa dei detersivi.

In classe c’era il gelo. I ragazzi mi giudicavano in silenzio come si fa con un tiranno, mentre le ragazze piangevano, tranne la preferita del genio, la sua migliore amica dagli occhi storti. Lei, semplicemente, stava per commettere un tirannicidio.

«Va bene, fatemi rivedere, e questa volta anche ascoltare, la stramaledetta musa per la quale Nolan ha perso la testa.» Dal fondo della classe, l’esile migliore amica friendzonata dello scomparso, con sguardo sartriano si alzò e venne verso la cattedra per uccidermi. Era l’unica senza compagno di banco. Collegò il telefono alla lavagna dove mandò il video in play: La vie en rose. La ragazza armena cantava La vie en rose. La bocca grande e la mascella squadrata dei khan in lei venivano contornati, mentre sul palco si muoveva come avrebbe fatto una vestale strafatta di gas naturale, da dense cascate di capelli carboniferi. Aveva gli occhi come mandorle e la pelle dell’oliva. Nella sua complessità, il corpo dell’evocatrice sembrava una musica celestiale concertata da strumenti mediorientali sconosciuti. E peggio, sotto alla voce, l’armena ne celava un’altra, che compariva unita alla prima nelle note più basse, note demoniache che innescate le infondevano altri occhi nelle profondità degli occhi stretti. In se stessa non era sola.

«Professore?! Professore, cosa le succede?» Rinvenni, ma perché accadesse la ragazza fu costretta a scuotermi con una forza che non aveva.

«Classe, so che mi odiate e avete ragione nel farlo, anch’io vi odio, ma qualcuno di voi saprebbe dirmi dove potrebbe trovarsi il ragazzo?!»

«Forse al mare, prof. Stamane hanno trovato una statua di sabbia al porto.» Disse la compagna di banco, cui lacrime scivolavano in dritti rivoli.

Senza riflettere nemmeno per un secondo sul fatto che quei venti ragazzi, diciannove, erano sotto mia responsabilità, uscii dall’aula: dovevo salvare il ragazzo. Solo io sapevo cosa gli era accaduto: troppa bellezza, tutta in una volta, nascosta per un attimo in una bella ragazza, quelli come noi li condanna ad una sola possibile fine.

Uscito dall’aula, Annibale iniziò a rincorrermi ed io a scappare, quando all’improvviso, dietro di lui comparve la consunta forma del povero preside martirizzato, che urlò: «Franco, dove stai andando di corsa?!».

«A salvare il ragazzo!» Sentite queste mie parole, con uno scatto da centometrista allenato, il preside Scipietto raggiunse il suo aguzzino Annibale, saltandogli al collo e arrestandolo. Emilia sentendo il frastuono uscì dall’aula dove stava tenendo la sua prosperosa lezione di matematica, per tifare: «Vai, Scipietto, amore, fagli vedere chi è veramente mio marito!».

Sentendosi forse per la prima volta in vita sua incitato dalla moglie, Scipietto Legione, ex-pugile pariolino peso piuma, con la vendetta nel cu…ore, cominciò a prendere a testate Annibale, che in pochi colpi scanditi dalle parole «Carthago-delenda-est!» si accasciò sconfitto, barrendo dal dolore nel riversarsi su un lato. Il vincitore scintillante dunque si erse, tenendo la ramazza dietro la schiena per simulare con le sue setole un pennacchio da centurione sopra alla testa, e con la gamba esile dalla livrea argentata poggiata sul nemico africano, mi invitò a compiere la mia impresa: «Vai, Franco! Il futuro di questa scuola e del tuo stipendio dipende da te!».

Un messaggio! Un messaggio di mia moglie, probabilmente per incitarmi ad andare avanti, a non desistere e a credere in me stesso: [Franco, ti ho messo la scopa per il bidello in macchina. Riportamela.].

Emilia invece corse verso il suo eroe per baciarlo, piegando la gamba all’indietro per l’eccitazione nello stampargli sulla guancia, il rosso emblema della vittoria, per poi sprofondargli la testa in mezzo alla scollatura. Mi voltai verso l’uscita. Non avrei mai più avuto una possibilità con lei, né a una cena di Natale fra colleghi, né durante una gita a Salonicco, ma con la sua stessa adrenalina colossale scaturita dall’aver appena visto un gattino abbattere un elefante da guerra, saltai nella mia Tesla, dando subito Watt al motore. “Tutte quelle tette per un uomo così piccolo sono la prova dell’ingiustizia di Dio”, pensai, mentre la strada e le nuvole mi sfuggivano intorno. «Tesla metti La vie en rose!» [Ok! Acquisto effettuato! Il pacco contenente Abito rosa arriverà domani.] «Mh, un abito rosa volendo posso anche metterlo quando finalmente deciderò di andarmi a suicidare, grazie.» Dissi. [Prego, Franco!] Alla fine Tesla spendeva meno di Elettra. “Ma ora l’importante è salvare il ragazzo. Sì, questo importa. Solo io posso farlo,” pensai, nell’impostare la velocità al massimo.

Sulla costa del porto un gruppo di persone richiamò la mia attenzione. Inchiodai. Una donna alta in mezzo a questi guardava il mare, ma non era una forma di vita a base di carbonio. Di sabbia era la sua pelle come il suo avvolgente vestito confuso con la spiaggia su cui stavamo sgomenti. C’era il silenzio delle cattedrali, quello che è permesso rompere solo a un bambino scalpitante. Era lei, la cantante armena, ed era spaventosamente bella. Caddi in ginocchio e le urlai: «Lascia in pace quel pover’uomo, non sa quello che fa! Non sa quello che ha visto!». Ma non ero un moccioso scalpitante, bensì un uomo di quarantacinque anni alto un metro e novantuno per 100 chili, quindi tutti mi inveirono contro con bronci infastiditi e borbottii di rimprovero. Anche il mare sembrò agitarsi, schiumando fragorosamente un’onda lunga d’ammonimento. Dovevo distruggere quel mostro.

Tornai alla Tesla, montai la scopa telescopica e caricai verso la folla voltatasi incredula a guardarmi scaturire un urlo guerriero e uno sguardo feroce, degni del preside. Giunto alla calca, affaticato dalla sabbia sotto alle scarpe e appesantito da quella dentro di esse, qualcuno dei presenti cercò di trattenere la mia ira, ma l’idea di salvare il ragazzo dalla mia stessa fine ebbe la meglio sulla resistenza. Con tutta la forza che avevo in corpo, la stessa che avrei dovuto usare per strozzare chissà quanta gente durante la mia prima mezza età, colpii la magnifica installazione artistica del genio, infrangendone tuttavia solo l’apparenza. La scopa affondò difatti solo per pochi istanti, battendo poi un contraccolpo secco Tac! che mi scaraventò col culo sulla battigia bagnata, incredulo come chi scopre reale per tutti ciò in cui ha creduto lungamente in solitudine.

Come una clessidra al contrario, la sabbia modellata sul corpo della cantante armena cadde giù, come fecero per la sorpresa le bocche degli astanti nello scoprire che alla loro vista, dov’era stata la fragile creazione, era sopravvissuta un’anima di intricatissimi filamenti marmorei, umanoide forma dal volto ferino, cacciatore, simile a quello che mi fece suo quando ero solo un ragazzo e non ancora uno scrittore, quindi quando ero felice. Tutti mi fissarono come se avessi appena strappato la Gioconda o cancellatone addirittura il primo NFT, mentre disilluso pensavo che per il genio era ormai troppo tardi, dato che aveva di certo intravisto, e poi scolpito, la sua condanna a vita.

Fra gli insulti e i calci sulle mie povere terga bagnate, fuggii verso l’auto, ma non prima che un fanatico dell’arte contemporanea mi ebbe strappato la giacca, tenendosene per sé una metà buona.

«Tesla, portami in Armenia!» [Ok! Il volo partirà fra 45 minuti dall’Aeroporto di Ancona! Pacchetto business acquistato: comprende l’imbarco, due tramezzini e una bottiglia di champagne. 13400 euro totali. Grazie per aver scelto Ultralitalia!] «Tesla, annulla tutto!» [Non è possibile.] «Vaffanculo, Tesla!» [Puoi ripetere? Il costo del biglietto potrebbe aumentare per sanzione-molestie sessiste su intelligenza artificiale femminile.] «Niente, scherzavo, cara.» [Ah, mi sembrava.]

Le ultra-turbine turbinavano velocissime quando mi feci spazio sulla scalinata d’imbarco e più forte dopo che, salutata la hostess, una insigne fica pure lei, come un ossesso iniziai a cercare il ragazzo. Stava in coda, col suo sguardo lapislazzuli, la tristezza e tutto il resto. Quando mi notò, fece la faccia di chi si vede avvicinare un venditore di rose al ristorante.

«Ragazzo, non farlo!»

«Professore, se ne vada, io la amo.»

«Non farlo, fidati. Vuoi scolpire quello che hai visto dentro di lei? Vero?! Il suono della sua seconda voce. Ho visto il video e il tentativo che hai fatto sulla spiaggia. Cazzo, sei veramente un genio, l’anima della musa in marmo era così terrificante da sembrare vera. Come diavolo hai fatto a scolpirla in una notte?! Ok, sei tu, giusto. Ma desisti, ragazzo.» Boccheggiavo per la corsa come un pesce appena pescato e come tale ero impanato di sabbia e acqua fin dentro alle natiche. «È una musa, un demone, in sostanza qualcosa di ancestrale che un uomo non potrà mai comprendere né riprodurre, tanto meno se millanta di farlo con l’arte che padroneggia, perché loro non sono di questo mondo e impossessandosi di belle ragazze fanno impazzire gli artisti che in questo mondo errano solitari, condannandoli alla fine peggiore del genio, il matrimonio. Non fare lo stesso mio errore!»

«Professore, le mie mani sono state create per scolpire quello che lei ha dentro… e per stringerla da fuori.»

«Non ci riuscirai mai! Cioè, forse fuori sì. Cazzo ne so io se le armene siano o meno facili. Ma quello che hai visto in lei è un inganno. Anch’io credevo che le mie mani fossero state generate per scrivere le poesie che vedevo dentro alla mia, ma era una cazzata! Andrà così: la sposerai e farete dei figli, ma poi la musa scomparirà e sarà stato tutto tempo perso! Sono sicuro che ti costringerà a mettere dei calzini rosa al gatto prima che tu possa riuscire nell’impresa di scolpire l’amore che vedi in lei! Capisci, rosa!».

Il giovane, incosciente, non comprese la gravità della sua posizione e, risoluto come chi crede di sapere, allacciò la cintura.

L’intero equipaggio cercava di capire di cosa avessimo discusso, come fecero tutti i passeggeri seduti al proprio posto. Vicino al ragazzo c’era un sedile vuoto. Decisi: «Verrò con te, ragazzo, la smaschererò così avrai salva la tua integrità.»

«Professore, sei un folle! Lasciami in pace!» Vibrò il mio allievo.

«Signore, mi scusi,» disse la hostess dell’accoglienza in volo, «ma lei è fradicio e non sembra nelle condizioni di volare. La prego di scendere. Stiamo per decollare».

«Non me ne andrò mai! Non avrete anche lui!» Nei suoi occhi s’accese allora una fiamma d’altri occhi e da insigne fica divenne la donna più celestiale del mondo, tanto che nella mia mente si generò un canzoniere da dedicarle.

«Lasciateci stare!» Le urlai. Sorrise, sinistra. «E… E… lasciate stare il ragazzo! Il genio deve stare da solo, non costringetelo a sposarsi!»

Mentre con forza mi scortava fuori, due furono le voci con cui mi disse: «La accompagno all’uscita, Franco, non dimentichi di cambiare i calzini, micio, sennò poi si raffredda». Sorrise di nuovo, poi la musa della cantante scomparve dai suoi occhi come in uno smorzarsi di fiamme, e la hostess tornò ad essere solo sé stessa. Abbassai la testa per non ghigliottinarmela col basso portello dello scafo e scesi sconfitto da dove ero salito.

«Se ha delle rimostranze si rivolga pure all’infermeria di compagnia. Grazie per aver scelto Ultraitalia. Il biglietto non è rimborsabile». Concluse, gentile.

Ero stanco morto e il sole precipitava lento oltre l’autostrada, quindi mi decisi a ripartire. Chiesi alla Tesla di tornare da sola casa e lei fu così magnanima da riportarmici senza comprare niente di costoso.

La porta domotica si aprì come sempre quando ancora ero nel vialetto. In cucina mia moglie mi sorrise mentre cucinava qualcosa insieme alle bambine – il gatto stanziava immenso vicino alla planetaria, che le piccole si combattevano nella gara per chi aiutava di più la mamma, e nell’aria stanziavano nuvole di farina, quindi pensai a un dolce.

«Franco, sei tutto insabbiato, togliti le scarpe santo cielo e cos’è successo alla tua giacca!»

Non la ascoltai e mi avvicinai a lei afferrandola per i fianchi con forza: «Fatti guardare negli occhi, amore, devo ricordare perché ti ho scelta.»

«Franco, allora forse dovresti guardare più in basso.»

«Sì, invece. Fa’ guardare meglio dove si è nascosta la musa che mi ha condannato a scrivere di lei e a servire te e il tuo gatto eunuco.»

«Franco, non è più lì né tanto meno nelle poesie che mi hai scritto da ragazzo.»

«Non dirmi che è negli occhi di chi guarda.»

«Non lo farei mai.»

Guardai le bambine, che ci fissavano curiose e le chiesi: «Forse è in quello che abbiamo creato insieme?!». La strinsi più forte.

«No, Franco, quella è solo la vita reale. A proposito, dov’è la mia scopa telescopica?! Se te la sei persa niente torta per te stasera.»

«Nella Tesla.» In realtà l’avevo abbandonata in spiaggia per la fretta.

«Vai a prenderla e pulisci il casino combinato dalle tue figlie.»

«Prima porto a pisciare il gatto.»

A fatica feci indossare i fantastici calzini rosa a tutto quello che era rimasto della mia giovanile passione, lo lanciai nella Tesla e tornai verso il mare. Mentre guidavo mi fissava. Elettra mi chiese per messaggio dove stessi portando il suo gatto, non risposi. Scesi dall’auto, calzai il guinzaglio al triste felino gay e andai verso la statua, visibile appena per quel che la luna poteva contro la notte severa. Iniziai a studiare quell’essere, il suono scolpito di un’entità antica.

«Parlami! So che sei ancora là dentro! Dov’è colei che per un attimo si impossessò di Elettra rendendola celestiale e costringendomi a sposarla! Dov’è l’altra musa?!»

Niente, si comportava solo come la statua terrificante e magnifica che era, mentre vidi il gatto pisciarci sopra per poi pulirsi strusciandosi sull’orlo dei miei pantaloni e della mia pazienza.

«Tutto bene signore? sembra scosso. Ho visto brillare qualcosa e vi ho raggiunti.» Questo disse un uomo con lo sguardo a metà coperto da un largo cappuccio. Probabilmente era un pescatore a giudicare dall’incerata e dalla cassetta che poggiò fragorosamente a terra per giocherellare col gatto, ma soprattutto dalla canna da pesca che notai in ultimo e che teneva in spalla con disinvoltura.

«Sì, cercavo la mia scopa…»

«Una scopa! Ah, guardi è lì.»

Lì dove? Non si vedeva un cazzo per terra a parte il gatto. Fu l’uomo stesso a pormela prima di salutarmi nella maniera peggiore possibile: «Buonanotte signore e complimenti per il gatto!».

«Grazie, ma è di mia moglie!» Che vergogna. Un uomo della mia età avrebbe dovuto portare a spasso un bel pastore tedesco di razza pura, altroché quel batuffolo grasso e peloso che Elettra custodiva come se fosse il segreto più importante al mondo.

Ma prima di sparire l’uomo si voltò nuovamente verso di noi, mentre mi ero messo chissà perché a fissare il micio, e aggiunse: «Già da lontano mi era sembrato di notare accendersi due piccoli fari celesti in quello che poi ho scoperto essere solo il suo animale domestico, e sa, devo ammetterlo, devo dirglielo! anche se mi vergogno… Gatto, semmai trovassi una donna con i tuoi stessi occhi oceanici, la sposerei, preferendola al mare».

Fine.

La musa dalle due voci

Autore: Francesco Maurizi

(La storia, i luoghi e i personaggi di questo e di tutti gli altri racconti presenti in questo sito, sono frutto della fantasia dell’autore degli stessi, Francesco Maurizi, e come tali, sono protetti dal diritto d’autore.)

Il racconto è finito, per ora. Grazie per il tuo tempo e, se ti va, condividilo!

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