Racconto – Il bambino che scalò l’Annapurna

Legenda: Nome cima (Altezza – Posizione nella classifica delle vette più alte del mondo)

«Se la Tesla non farà scherzi presto arriveremo alla mia vecchia casa. Intanto, se là dietro farete le brave, vi racconterò ancora una volta di quando, alla vostra età, persi il mio sherpa, lassù, sulla vetta dell’Annapurna.»

Avevo solo otto anni quando tentai l’ascesa del mio primo 8000.

Peppe Scimmia, per celebrare il compleanno della nostra roulotte, aveva regalato a Sherpa una videocassetta sulle quattordici vette più alte della Terra, che io divorai ripetutamente nel lungo inverno successivo.

A scuola non pensavo ad altro e mentre i miei amici si concentravano sulle barbabietole da zucchero e sulle palafitte della Mezzaluna Fertile, oltre che sul ben più importante mercato nero delle carte Pokémon, non facevo altro che ripetermi i difficili nomi delle 14 colonne rocciose che, superando gli otto chilometri di altezza, reggono il cielo. Su tutte Kangchenjunga (8586 m-3). Ahah, Kangchenjunga, pensavo ridacchiando, è un nome perfetto per la maestra.

Quando il documentario arrivava all’Everest (8848 m-1) piangevo, sia per la magia che la cima più alta della terra infondeva nel bambino più basso della classe, sia perché, subito dopo, Sherpa toglieva frettolosamente la cassetta dal videoregistratore per non farmi vedere i contenuti speciali.

“Ti ho detto mille volte che non puoi vederli”, Franco, “perché mostra gli alpinisti che non ce l’hanno fatta e non sono cose per bambini.” Quindi andava a nasconderla sopra a un armadio, per me alto almeno quanto il K2 (8611 m-2), la cima che sapevo essere la più alta del Karakorum, la Ghiaia Nera del Pakistan.

Alla prima luce della primavera e stufo delle mie mille richieste di vedere i contenuti speciali, finalmente Sherpa si decise a presiedere e organizzare la prima spedizione di un bambino laddove nessun bambino era mai stato. Doveva farlo, perché il continuo impedirmi di vedere tutta la cassetta aveva ormai disgregato come una frana il nostro rapporto basato sul reciproco rispetto e sulla libertà personale.

Dentro alla roulotte, lungo tutto l’insidioso tragitto per il Nepal, l’acciottolare delle padelle appese sopra al cucinino a gas e delle tazze di plastica sigillate dentro agli appositi scomparti, era assordante. Un vero e proprio problema alle quattro del mattino e prima di una scalata, quando un alpinista come me doveva concentrarsi e riflettere su un buon percorso. Tuttavia non volevo viaggiare nella Fiat 127 celeste con lo Sherpa e peggio con le donne della sua famiglia, cui unica mansione sarebbe stata occuparsi del campo quattro, attendendo il ritorno del loro capofamiglia e dell’intrepido scalatore occidentale.

“Le donne non portano fortuna, perché le montagne sono divinità femminili molto gelose,” pensavo nel letto a castello osservando l’auto da traino dalla finestrella di plastica bombata verso l’esterno, “e poi si stancano presto in salita per via dei piedini delicati”.

Impossibilitato a riposare per il fracasso, preparai l’attrezzatura. Indossai i pantaloni da alta quota sopra al pigiama, perché sull’Annapurna (8091-10) la temperatura poteva raggiungere i 40°C sotto lo zero. Poi la canottiera di lana di lama, la tuta termica Adidas da scalatore, quella con sole due linee bianche parallele, e il Keeway con cappuccio idrorepellente marcato MM’s. Tutto questo me lo aveva comprato la moglie dello sherpa, Francesca, durante alcune delle vendite mensili a domicilio effettuate nelle case degli alpinisti dal marocchino Mohammad. Interpretai man mano quei doni come un chiaro segno del suo amore per me, probabilmente nato dal fatto che Sherpa impedisse anche a lei di vedere quegli stramaledetti contenuti speciali. Non ricambiai mai l’affetto della donna, perché nonostante la crepa fra me e Sherpa fosse ormai un crepaccio, non mi sarei mai sognato di tradire quell’uomo in casa sua. Vacillai solo il giorno in cui Francesca mi comprò gli scarponi, fiore all’occhiello della Mohammad Mountain’s, i miei primi scarponi professionali dal valore di ben 12000 lire. Lì dovetti trattenermi dal baciarla.

«Francesca, solo capi originale! Capi’? Scarponi di marca, fidati!» La rassicurò Mohammad inarcando le sopracciglia folte dopo essere sceso dalla sua auto scura, infangata e stracolma di vestiti e tappeti persiani di alta fattura.

In ultimo arrotolai alla vita un cordino di paracord bianco, che avevo trovato sulla macchina da cucire di nonna, indossai il cappello con visiera MM’s e infilai nei tasconi la mia bussola, il coltellino e l’accendino. Quest’ultimo era essenziale per ricavare acqua dalla neve, lassù, a un passo dalle gelide stelle.

Alle provviste aveva pensato l’amorevole Francesca. Sandwich con roast-beef alle carote, altro che quegli immangiabili panini alla frittata fatti dalla moglie di Peppe Scimmia per attentare alla sua vita. Sherpa avrebbe poi trasportato, da bravo sherpa, tutti i viveri compresa l’acqua, mentre io avrei tenuto con me solo una cosa da mangiare, per sicurezza, nel caso il mio portatore fosse scivolato nel buio di un crepaccio. Era una tavoletta di cioccolata che mio nonno mi aveva donato di nascosto in cambio della promessa di tornare da lui.

Nel 1970 mio nonno rimase infatti sconvolto dalla morte per allucinazioni del fratello di Messner, travolto da una valanga nel tentativo di discendere dal Nanga Parbat [8125 m-9], considerata la conformazione montuosa più massiccia della Terra. E non voleva che il suo prezioso unico nipote maschio facesse la stessa fine sull’Annapurna, sorella minore ma non meno pericolosa di quell’allucinante cicciona di pietra che aveva sepolto in sé il celebre alpinista suo coetaneo.

Alle 06:00 entrò l’alba nella roulotte, mentre, traballando, facevo pipì. Smisi di mirare per guardare fuori dall’oblò del piccolo bagno chimico, e ammirai, estasiato, la grandezza della profonda gola che avrebbe segnato la mia iniziazione alla gloria eterna degli Ottomila. Con le montagne – “come con le donne, ma questo non posso dirvelo” – devi sempre partire da dentro una gola. Così aveva detto Peppe Scimmia a mio padre nel porgergli la cassetta, condannandosi a ricevere, ma da Francesca, una rovente padellata in testa.

Anche se era solo la decima vetta più alta del mondo, l’Annapurna era comunque la più pericolosa, perché per ogni sessanta cime conquistate quaranta erano le vite che quella terribile montagna, in avvicinamento sulla linea dell’orizzonte, reclamava a sé. Per questo l’avevo scelta come prima sfida, per questo e perché sull’etichetta della cassetta c’era proprio il suo nome, [ANNAPURNA], scritto in malo modo da Peppe Scimmia con un pennarello rosso indelebile. Fu un segno che interpretai come un chiaro consiglio a me rivolto dal destino.

Al cartello Foce, dopo un paesino pietrificato di nepalesi dormienti, la roulotte si fermò. Eravamo arrivati al Campo Quattro, dove molti altri audaci si stavano vestendo fuori dalle tende colorate, per tentare, come noi, l’attacco al gigante. Sapevo che molti di loro non ce l’avrebbero fatta, ma anche loro ci diedero per spacciati, guardando scendere il mio sherpa e le tre donne dalla 127 impolverata.

«Sei pronto, Franco?»

«Sì, Sherpa, non è stato un viaggio comodissimo, ma sono certo che hai fatto del tuo meglio.»

«Siete sicure che non volete venire anche voi?» disse lui rivolgendosi, mentre indossava il primo zaino, alle figlie ancora sonnecchianti dal lungo viaggio.

«No, io no,» disse Susanna, la maggiore, di diciassette anni, «nemmeno volevo venirci qui. Ci veniamo tutti gli anni!».

«Esatto,» aggiunse Sonia, di due anni più piccola, «le mie amiche fanno vacanze vere, mentre noi sempre a Foce di Montemonaco per la solita noiosa escursione al Lago, al Vettore e poi dritti a casa, stremati».

Pensai che Foce, Lago e Vettore fossero i nomi, in lingua madre nepalese, delle tappe obbligate per arrivare alla vetta, e non credetti nemmeno per un istante che quelle due ragazzine viziate potessero aver mai attaccato l’Annapurna. Erano donne, pazze e isteriche, quindi il padre, come al solito, le assecondò.

«Per vostro fratello Franco è la prima volta, quindi restate pure qui con vostra madre ma non fate i capricci, perché questo è il massimo che possiamo permetterci», le zittì lo sherpa, sistemandosi il secondo zaino, il mio, sulla schiena. Anche se faceva il gentile perché si sentiva certo in colpa per non avermi fatto vedere i contenuti speciali, era bello che Sherpa parlasse anche di me come se fossi stato uno dei suoi figli. Pensai fosse una cosa bella, anche se ancora lo odiavo, che gli appartenenti alle povere culture delle montagne considerassero tutta l’umanità inscritta nella propria famiglia da proteggere.

Le due ragazze sbuffarono e andarono a sedersi intorno al tavolino apribile imbandito nel mentre da Francesca, per mangiare imbronciate latte e biscotti.

«Dai, Franco, andiamo. Raffaello ci aspetta a metà strada», mi disse Sherpa visibilmente appesantito dal carico.

Come sentì queste parole, Susanna si voltò verso lo Sherpa e il frollino le cadde nella tazza, Plop. «Vengo pure io, babbo!» Allora Sonia subito: «Anch’io, anch’io!».

“Donne, pazze isteriche”, pensai, “ci rallenteranno”.

«Allora sbrigatevi a prepararvi.» Le affrettò Sherpa, mordendo un biscotto nello scrutare le piramidi di ghiaccio all’orizzonte. Poi baciò sua moglie, la quale appena tolte le labbra da sotto ai suoi baffi, guardandolo, gli si raccomandò: «Attento a Franco, e se incontri Peppe Scimmia digli che so del vostro sporco segreto, quindi che non provasse a presentarsi qui a pranzo».

“Segreti fra Sherpa”, pensai, “si tratterà di qualche eretica bisboccia fatta dai due durante le sacre feste per la dea Annapurna, la dea nepalese dell’abbondanza”.

La prima parte del percorso era una larga strada brecciata, probabilmente una mulattiera per gli yak, i potenti mammiferi da trasporto, lanosi come mammut, che vivono solo in Nepal. Lungo la salita, ai lati della strada c’erano enormi massi che lo sherpa mi disse essere piombati giù dal cielo in frane ancestrali. Le ragazze, imbacuccate da Francesca con capi MM’s, scomparivano nel passare vicino a quelle gigantesche vette scartate dalle montagne nei millenni. Ogni tanto mi voltavo per vedere se riuscissero a starci dietro, mentre intorno a noi la vallata d’erba in falso piano era qua e là pezzata di neve, come se fosse la pelle di una strana mucca verde e bianca.

«Trovate dei bastoni, vi serviranno.» Così Sherpa ammise la sua più grande colpa, l’aver dimenticato l’attrezzatura tecnica a casa, sempre se l’aveva. Gli sguardi di tutti noi prima sperduti lungo le alte vette dell’Himalaya tutt’intorno, ora erano rivolti alla terra nera e farinosa, alla ricerca di un bastone adatto alle nostre piccole altezze.

Susanna fu la prima a trovarne uno, incastrato fra due mastodontiche schegge di montagna infilzate nella neve erbosa. Era senza dubbio il bastone più bello che avessi mai visto. Era completamente deprivato della corteccia e intagliato con cerchi rituali anneriti con una punta di coltello arroventato. Era appartenuto certamente a qualche alpinista che non ce l’aveva fatta. Era prezioso, unico. Sonia cercò anch’essa laddove la sorella maggiore aveva trovato il suo, ma non fu egualmente fortunata. La montagna aveva scelto Susanna, quindi Sonia aggrottò il viso e mise il broncio.

Non durò nemmeno dieci minuti: «Lo avevo visto prima io!», la sentii urlare dietro di me.

Sonia aveva afferrato il bastone e cercava di sottrarlo alla legittima proprietaria tirandolo a sé come in un tiro alla fune. Lo sherpa allora tornò indietro per interrompere quella scena patetica, inammissibile anche sul Shishapangma (8027 m-14), la vetta più bassa delle vette più alte del mondo. Intanto, una cordata composta da padre, madre e figlio, tutti biondi e vestiti a nuovo, li stava superando e peggio rideva della miseria di quella scena. Il figlio sfogliava le sue carte Pokémon. “Che sfigato”, pensai. Sherpa allora agguantò il bastone e lo innalzò verso il cielo insieme alle ragazze ancora aggrappate alle due estremità come pesi a un bilanciere. La forza di quell’uomo era impressionante, eppure l’invidia fra le giovani nepalesi era più tenace anche del più tenace fra gli scalatori.

Per aiutarlo raccolsi un sasso e lo lanciai verso di loro. Purtroppo colpii Susanna, che lasciò la presa cadendo a terra e lo stesso fece Sonia non appena perse il suo contrappeso. Lo sherpa venne allora verso di me, mentre le figlie ripresero a strapparsi i capelli azzuffandosi come forsennate sull’erba innevata. Poi Sherpa spezzò il bastone sacro in due parti e me le affidò.

«Tutta questa gelosia solo per un bastone, Sherpa?» Chiesi.

«Donne,» rispose lui, «Peppe dice che si ucciderebbero per il bastone migliore».

Arrivati alla fine del lungo serpentone bianco, trovammo davanti a noi un bosco oscuro, nel quale una irta via era in salita. Una verticale di svolte zigzaganti sarebbe stata la nostra prossima sfida. Dopo aver riempito le borracce in una fonte in pietra per l’abbeveraggio degli yak, Sherpa raccolse altri due bastoni da dare alle figlie, ancora incazzatissime l’una con l’altra, e ci condusse al primo passo della vera ascesa. Ma prima che potesse aprirci la via, lo fermai: «Sherpa, uno yak!».

L’animale era legato con una corda a un albero e ragliava libertà!

«Possiamo portarlo con noi, Sherpa?! Ti aiuterà col carico…» Domandai speranzoso.

«No, Franco, non sappiamo di chi sia quell’asino, non possiamo!»

Pensai che per coincidenza Asino fosse la parola nepalese per chiamare gli yak. Sapevo che gli yak erano marroni e siccome era marrone, era uno yak. Inoltre soffriva e non riusciva a produrre il suo tipico richiamo, perché a valle era troppo caldo per uno yak originale del genere, quindi l’unico modo di salvarlo sarebbe stato portarlo con noi fino a un’altezza e a una temperatura adeguate alla sua imponente massa grassa.

“Chi ti ha legato qui non sa che non basta tosare uno yak così tanto per farlo star bene alle basse altitudini, ignoranti!”, pensai furibondo.

«Sherpa, dobbiamo portarlo con noi!»

«No, Franco, puzza ed è vecchio. Guarda le mosche! Inoltre se gli passi dietro potrebbe darti una scalciata e ucciderti.»

«Ma Sherpa, gli yak non scalciano!»

«Infatti è un asino come te!» Urlò Sonia, vittima dell’ignoranza data dalla pessima istruzione nepalese riservata alla casta povera. Annuii, ma mentre la famiglia dello Sherpa si inerpicava sulla prima svolta, corsi a liberare il povero mammifero, recidendo la corda col mio coltellino svizzero: «Tu verrai con noi, nobile gigante buono del Nepal».

«Franco, è un asino!» urlò ora lo Sherpa per far contenta la figlia.

«Non importa, Sherpa, non sarà il miglior yak, ma io devo salvarlo e portarlo sopra le svolte, al freddo della steppa alpina e al suo branco, alla sua famiglia!»

Sapevo che sarebbe bastato citare il sacro vincolo della famiglia per sciogliere il cuore del proletario nepalese. Difatti Sherpa col palmo della mano fermò la prole e venne ad abbracciarmi, forte, sussurrandomi: «Va bene, Franco, portiamo lo yak con noi. Sei un bravo ometto».

“Ah, indigeno! Così impari a non farmi vedere i contenuti speciali!”. Ridacchiai.

Più che un bravo ometto ero un grande imbonitore, quindi Sherpa caricò lo zaino con i panini e l’acqua sulla bestia, e iniziammo la vera scalata.

Le svolte erano brevi, dieci passi ognuna, ma con una pendenza del novanta per cento. Sotto ai nostri scarponi Mohammad Monuntain’s la neve residua dell’inverno gelava le fughe fra i sassi e ci tirava indietro ad ogni passo, tanto da ricordarmi le cascate di ghiaccio del Khombu, nella seraccata vicina al campo base dell’Everest.

Caddi, lo yak mi guardò inchiodando, eppure per affrontare ostacoli simili mi ero allenato mesi correndo su per lo scivolo del parchetto comunale, mentre gli altri bambini perdevano il loro tempo nello scambiarsi i Pokémon volteggiando sulle loro stupide altalene per ragazze. Quando su quello scivolo scivolavo all’indietro, sbattendo con gli occhiali sulla lamina argentata, era l’unico momento in cui quegli idioti mi dessero attenzione, ma io sapevo che sarei arrivato più in alto di quanto le loro stupide altalene potessero fare. Con la guancia sul metallo ghiacciato, come ora l’avevo sulla neve, avrei solo dovuto rialzarmi e continuare a cadere. Solo così, dopo l’Annapurna, avrei potuto scalare la vetta Regina e pochi giorni dopo il Lhotse (8516 m-4), separato dall’Everest dal famoso Colle Sud. Mi rialzai, lo yak ripartì.

Erano già le dieci e la famiglia di tedeschi(?) ricchi davanti a noi non si vedeva più, nascosta cento svolte più sopra dalle fronde ombreggianti e dai seracchi, mortali cumuli di neve poggiati sopra scivolose lastre ghiacciate.

Almeno lo yak tirava come un mulo. Nonostante il carico sulla groppa, infatti, con i suoi possenti zoccoli batteva a terra colpi come chiodi: era veramente la bestia magnifica che nella cassetta avevo ammirato trasportare, come nulla fosse, pesantissimi cassoni di legno lungo i sentieri a strapiombo del Manaslu (8163 m-8). Su quella verticale strada a fisarmonica, Yak ci seguiva come se fosse sempre stato il nostro animale domestico… fin quando, sopra allo strapiombo che salendo avevamo creato sotto di noi, l’animale fiutò qualcosa e decise di fermarsi.

Poi iniziò a girare pericolosamente, puntando il muso verso lo zainetto azzurro sulla sua groppa come un cane nell’atto di afferrarsi la coda.

«Franco, perché ti sei fermato?!»

«Sherpa, lo yak non ne vuole sapere… gira!»

«Tira la corda, Franco, fermalo!»

Tirai la corda legata alla museruola. La tirai più forte che potevo, ma la neve mista ai sassi rese inutile ogni mio sforzo. Le svolte non erano per nulla come la lastra di uno scivolo.

«Aiutatemi!»

«Hai voluto lo yak?! Ora attaccatici!» Urlò Sonia.

Tirai, tirai e tirai, ma niente, continuava a girare, roteando sul bordo innevato del nulla boscoso.

«Prova con un panino!» Urlò Susanna.

Saltando, afferrai un panino imbottito col roast beef alle carote dallo zaino sull’animale e glielo parai davanti al muso. Lo yak lo annusò con le grosse narici nere, e, strabuzzando gli occhi, lo morse con i due dentoni. Salvai la mano per miracolo, ma le altre parti di me non erano affatto al sicuro: assaggiato il sangue l’erbivoro difatti impazzì, iniziando a scalciare alternativamente le zampe anteriori e posteriori, tanto da farmi scivolare sotto di lui nella concitazione innevata. Vi fu un istante in cui mi passò tutta la vita davanti: mamma, i miei giocattoli, il mio cane, fine. Del resto avevo solo otto anni. Poi, proprio quando l’animale, di culo, stava per calciarmi il colpo mortale, Sherpa lo colpì con una spallata Tup! scaraventandolo giù per le ripide svolte.

L’animale, prima di sbattere violentemente contro i dinoccolati alberi neri sottostanti, tesi al cielo come mani nere aperte ad afferrare, mi guardò, con sul muso, la vera paura. Tum, Sbam, Bum! Strilla di ragazze nepalesi. La grottesca caduta ebbe fine su di un candido seracco.

Era morto, era certamente morto, tuttavia non potevo piangere davanti alle ragazze mulatte. Poi uno stridulo di ghiaccio incrirotto preannunciò l’estremo addio all’animale, che scivolò a valle con l’intero seracco in una piccola valanga. Fu volo della Madonna, ma che non vidi, perché Sherpa mi aveva posato una mano sul viso umido perché non vedessi, dando lui al mio posto un’ultima occhiata verso il vuoto sotto di noi, alla morte che è solo dei grandi, prima di pronunciarsi in un silenzio profondo, epitaffio degli Ottomila per gli amici perduti.

A fatica, proseguimmo, ma grazie ai miei due bastoni intagliati, che imparai a usare come picconi, la salita divenne semplice da sembrarmi il Dhaulagiri (8167 m-7), nonostante i miei pensieri fossero ormai solo di morte: “Quindi è vero, quassù si muore veramente come nei contenuti speciali! Ecco perché Sherpa non ha mai voluto che li guardassi: perché non immaginassi il sapore della morte prima di assaggiarla…”. Immaginai che la morte sapesse di roast-beef alle carote, “non male”, e andai oltre, con le lacrime a gelarmi le guance rosse.

Il sole era un frutto dell’ultimo albero della selva, su, oltre l’ultima svolta, e noi arrivammo a coglierlo. Davanti a noi si aprì l’immensa valle di colline giganti, la steppa alpina, gialla paglierina laddove non fosse innevata. Una pelle di mucca gialla e bianca, un fiume dorato fra argini di vette celesti. In lontananza, la piramide dell’Annapurna non era più grande di una punta di freccia. Non c’era nessun albero e il sentiero scavallava un susseguirsi di ammontamenti, mentre altri li tagliava lateralmente, permettendoci, anche se raramente, di riprendere fiato. L’aria era infatti rarefatta e quando respiravo mi si appannavano gli occhiali, quindi compresi che la zona della morte, locata fra un Ottomila e la sua vetta, doveva essere vicina. La cassetta di Peppe Scimmia diceva che oltre quell’altezza, il corpo umano muore per ipossia e bisogna sbrigarsi a completare la scalata e a scendere.

«Babbo, quanto manca?!» Chiese Susanna. «Svettata quella collina siamo arrivati,» rispose lui. Tempo dopo la stessa domanda la fece Sonia, ma la risposta dello sherpa fu simile: «Oltre quella cresta c’è il Lago». Ma oltre quella cresta si aprì uno scenario gemello al precedente: colline di neve dorata solcate da un piccolo sentiero tracciato per transumare le capre tibetane.

Con l’aumento di quota, si alzò il vento. «Babbo, sono stanca…» gridò Sonia, quando svettammo nuovamente una montagnetta trovandoci davanti un’altra montagnetta identica. «Siamo quasi arrivati, mi ero sbagliato, è la prossima.» Non era vero. Il vento divenne sferzante, piegandoci come gli steli dei violacei fiori aguzzi di montagna, di tanto in tanto in folti mazzetti lungo il sentiero sempre uguale. «Ho fame, babbo!» Si lamentò Sonia, disperata, «Sono stanca e ho fame!» Ma lo sherpa aveva perso tutti i viveri con lo yak quindi cercò di tranquillizzarla come poté: «Arriviamo al lago, Peppe Scimmia ha i panini con la frittata!» Sherpa dovette urlare perché si sentisse fra i canti del vento nelle forre. “Che schifo”, pensai, sarò il primo scalatore a tentare l’Annapurna oltre che senza ossigeno anche senza cibo piuttosto che sorbirmi un panino con la frittata. Poi misi la mano sopra alla tasca del keeway: avevo la cioccolata. “Non è roba per nepalesi poveri”, pensai, “non abituati ai picchi glicemici. La mangerò di nascosto più tardi quando moriranno tutti”.

«Mi fanno male gli scarponi, babbo!» Pianse Sonia. “Impossibile”, pensai, “sono Mohammad Mountain’s!”. Un piccolo fastidio tempo addietro avevo iniziato a sentirlo anch’io, ma rischiare l’amputazione per cancrena al solo fine di togliermi un sassolino dall’ottima suola egiziana non mi era sembrato un affare, quindi avevo deciso di sopportare il dolore come consigliava la videocassetta e la virilità.

«Guardate per terra e camminate!» Guardammo per terra e camminammo. Una duna. Un’altra duna, ancora una. Duna. Duna. Duna. E sempre più neve su ognuna. All’ennesima, Sonia si sedette su una roccia e incrociò le braccia. «Dai, Sonia, andiamo, siamo quasi arrivati!» disse lo sherpa, mentre anche l’altra figlia fece lo stesso.

«Noi non ci schiodiamo da qui, vogliamo tornare alla roulotte!» Lo sherpa mi guardò, ma io feci di no con la testa. I giornali di tutto il mondo stavano aspettando la notizia del primo bambino su un Ottomila e non potevo permettermi il fallimento dell’impresa, ne andava del mio onore.

«Fidatevi, ne è rimasta una!» Gridò loro il padre a squarciagola. Ma non si mossero.

Alzai lo sguardo da terra, c’era un altro monticello, questa volta di sola neve, con in cima un seracco che se avesse originato una valanga ci avrebbe sepolti vivi. Oltre quella minaccia, si stagliava l’ancor più minacciosa piramide di roccia diamantata a bucare le nuvole, ammassate via via nel cielo dal vento forte come quello del Makalu (8463 m-5): era l’Annapurna. Guardando a terra anziché la meta, era come se non l’avessimo vista arrivare, come se fosse spuntata in quel momento dal nulla. Eppure, nonostante la vetta fosse ormai a una o due ore di cammino, o tre, le ragazze non vollero saperne, non si fidavano più, perché per motivarle il padre sherpa aveva mentito loro troppe volte, proprio come nella storia di Al lupo! Al lupo!.

«Sherpa, è l’ultima fatica vero?! Non mentirmi.» Chiesi.

«Sì, ci siamo quasi, Franco», rispose.

Presi la cioccolata, sul cui involucro la mucca era viola e bianca, e la spezzai dandola alle ragazze. Sherpa mi guardò come si ammira un eroe. Avevo donato ai più deboli quanto avessi, dando loro la forza di ripartire, mentre io mi sarei fermato. “Almeno morendo non sentirò più il sassolino nella scarpa”, pensai, lacrimando con in mano solo la pingue carta della cioccolata.

«Sherpa, aiuto, un lupo!» Gridai. L’animale correva come un pazzo sul crinale destro in un sentiero che confluiva col nostro. Era un lupo tibetano, con un DNA ancestrale diverso rispetto a quello dei comuni lupi grigi, quelli dai quali derivano i cani domestici. La cassetta era stata chiara: era pericolosissimo e terrorizzava i villaggi alla base del Cho Oyu (8201 m-6), fra Tibet e Nepal.

Dovevo salvarmi, la famiglia di nepalesi lo avrebbe saziato e io avrei potuto svettare, dando al lupo ancestrale un repentino calcio sul naso non appena mi avesse raggiunto. Corsi, mi arrampicai, mentre sherpa mi chiamava in suo aiuto «Franco! Franco! Dove vai!». Avevo le lacrime agli occhi, gli occhiali appannati, ma dovevo proseguire, afferrando sulla via gli spiragli di roccia nello sprofondare nei covoni di neve alti come minacciosi pupazzi da fronteggiare. “Cosa dirò ai giornali? Non di certo la verità.” Pensai nel mentre la viltà incespicava. Avrei raccontato il mio eroico tentativo di salvataggio e mi sarei morso un braccio per simulare l’attacco della bestia famelica, da me in ultimo sconfitta a mani nude per vendicare Sherpa e figlie. Poi, avrei sposato vedova Francesca e mi sarei assicurato una vita di ottimo roast beef alle carote e cioccolata.

Mi voltai quando il lupo li aveva raggiunti. Non volevo vedere la neve macchiata di sangue né sentire le loro future urla strazianti di dolore. Quindi, senza nessuno più a coprirmi gli occhi, diedi loro le spalle, lavandomene le mani.

Davanti a me, si sparse il Lago di Pilato, uno zaffiro liquido incastonato nella conca sotto alla grandiosa Annapurna e sorgente dei quattro sacri fiumi himalayani della cassetta. Per la precisione i laghi erano due, ma uniti da una stecca d’acqua a farli meno poeticamente sembrare un paio di occhiali rovesciati. Il vento sembrava non riuscire a infiltrarsi in quella conca fra le montagne.

Mi avvicinai e dentro vidi dei piccoli animaletti muoversi caoticamente come girini: sembravano buoni. Tolsi i guanti e mi lavai le mani, ora concretamente, nell’acqua gelata, poi creando con esse un bicchiere, ne bevvi, buttando giù una manciata di quei piccoli Pokémon. Non avevo più cibo e la cassetta mi aveva insegnato che a quelle quote, per sopravvivere, se qualcosa riusciva a vivere si poteva mangiare. Eppure il senso di colpa iniziò a muoversi nel mio stomaco, mentre seduto sul bordo del lago scintillante osservavo il monte ventoso che avrei dovuto attaccare da solo.

Si avvicinò un signore vestito di verde e con un cappello da cow-boy, e mi rimproverò: «Non starai mangiando mica i chirocefali del Marchesoni?!».

«No, solo questi piccoli gamberetti, signore…» dissi con le mani nuovamente a scodella piene di esserini scodinzolanti.

«Con chi sei? dov’è la tua famiglia?»

«Non ho una famiglia e ho perso anche la mia spedizione.»

«Appena trovo tuo padre sentirà che mina: un milione e cinquecentomila lire per ogni chirocefalo che ti sei mangiato», minacciò il custode dei gamberetti. «Quanti ne hai mangiati?!»

«Uno solo.»

In tasca avevo mille lire. Se non fosse che c’erano altri scalatori al Campo Cinque, lo avrei buttato nel lago e i nugoli di gamberetti carnivori avrebbero fatto il resto.

«E tu chi sei, bello?!» Mi disse.

«Sono Franco Lautizi, il primo bambino a scalare un Ottomila.»

«Non dico a te.»

Girai la testa e il lupo mi alitò in faccia. «Aiutooo! Aiutooo!» Gridai in preda al panico, gattonando come un bambino fin dietro il custode.

Con un fischio, un uomo con i capelli bianchi come il suo eskimo da cacciatore dei ghiacci, richiamò a sé l’animale. Era Raffaello, il più grande scalatore del mondo, e con lui c’era Peppe Scimmia, cui cognome diceva tutto. Sherpa mi aveva raccontato più volte che in una delle tante avventure che i tre compiettero da ragazzi, si erano lanciati insieme giù per un ghiaione, in caduta verticale, dove fermarsi avrebbe significato morire travolti dalla valanga di detriti che essi stessi via via stavano generando. Ai tempi i tre sherpa avevano solo vent’anni, mentre ora quasi quaranta.

Dietro i due amici ritrovati del nepalese sul mio libro paga, stremati ma salvi, lentamente sbucarono tutti i membri della mia spedizione. Erano ancora vivi.

Peppe Scimmia si guardò indietro e urlò: «Dai, Pa’, sbrigati se vuoi un panino con la frittata! So che non pensi ad altro, Pa’!».

Il custode dei gamberetti andò a parlarci, mentre io rimasi pietrificato pensando che Sherpa avrebbe dovuto vendere la roulotte per pagarmi la multa. Poi Peppe Scimmia tirò fuori dallo zaino un panino incartato nell’alluminio, e con quello corruppe il guardiano, scoppiando con lui a ridere nel voltarsi a guardarmi mentre ero ancora rannicchiato fra i ghiacci sassosi. Mi ricomposi per la vergogna.

Ci sedemmo intorno agli zaini e con molto ritardo comparve dal sentiero un ragazzo obeso, con le guance rosse e gli occhi socchiusi dalla ciccia. Venne verso di noi, goffo e impacciato, mentre Peppe Scimmia lo scimmiottava: «Dai, Pa’, grassone, ciccione di merda, sbrigati!».

Il ragazzo cadde vicino a me come corpo grasso cade e scartò un panino con foga senza proferire parola. «Vacci piano, Pa’, ché dobbiamo dividerli con gli altri.» Gli disse Peppe per bullizzarlo.

Nonostante ne odiassi la consistenza, azzannai il panino con la frittata che mi spettava e lo stesso fecero tutti gli altri nel silenzio richiesto dalla fame, dopo che il nobile Peppe Scimmia li aveva condivisi con tutti mettendoli sopra agli zaini ammonticchiati al centro delle due spedizioni.

«Il tizio della forestale lo conosco,» disse Peppe prendendo il fiasco di vino dallo zaino, «dei chirocefali non gliene frega niente, anzi li odia perché per quei cosi ributtanti in via, giustamente, di estinzione, deve salire quassù tutti i giorni abbandonando a valle il suo amato asino».

Sherpa fece innocentemente di sì con la testa mentre le figlie si voltarono omertose verso di lui, poi si batté il petto perché un boccone gli andò di traverso nel continuare ad annuire.

Peppe continuò: «Tuttavia ha detto di non cogliere le stelle alpine».

«Ma se ne ho sempre presa una per Francesca,» disse Sherpa a bocca piena.

«Ora è illegale.»

Il lupo stava buono seduto vicino a Raffaello. Entrambi avevano un occhio blu e uno nero. Pa’ fissava Susanna come io la cima dell’Annapurna, ma lei, come la montagna nei miei confronti, non lo ricambiava. Come Sonia infatti anche la sorella era persa d’amore per Raffaello. Dopo molto, sentendosi osservato, Raffaello chiese qualcosa di inottenibile a Peppe pur di togliersi dall’imbarazzo di quegli inopportuni sguardi languidi: «Hai un panino per il cane?». L’animale guardò Peppe e scodinzolò.

«No,» rispose Peppe – il cane si annichilì sulla neve- «già che devo sfamare quel porco di un fermano viziato dalla mammina. Fai attenzione a mio figlio Peppe, è sensibile, è un poeta! Mi ha detto la madre affidandomelo per l’ennesima volta. A quanto pare mia sorella non sa la differenza fra un porco e un poeta. Ahah!».

«Tu ti chiami Paolo?!» Chiesi al ragazzo grasso mentre si rimpinzava felice come immune alle offese dello zio.

«No,» rispose Peppe Scimmia al posto suo, «il mio mega-nipotino si chiama Giorgio, Pa’ sta per PAlla al piede, Ahah.» Poi prese l’ultimo panino rimastogli – Giorgio, zitto zitto, stava al terzo – e lo scartò, ma proprio quando stava per infliggere il suo primo bramoso morso della giornata, una sferzata di vento, l’unica che sentimmo nella conca dei laghi, gli fece volare via la frittata da dentro alle gigantesche fette di pane.

«Porco Dingi!» Urlò! Inveendo contro il cielo ladro dell’Himalaya.

Peppe fece per rincorrere la frittata volante, ma il lupo corse più forte e la azzannò al volo, innescando in Peppe la forza per continuare in una geremiade di bestemmie. «Porco su! Porco giù! Io senza frittata non salgo in vetta manco per il cazzo!».

Sherpa si impostò una faccia ebete da meme. «Peppe!» Lo riprese invece Raffaello, «ci sono i bambini! Modera i termini!».

«Il Poeta ne ha divorate tre! Tre panini!».

«Va bene, Peppe,» disse Raffaello mentre Il lupo si leccava il muso soddisfatto, «torno giù con te».

Anche Giorgio sembrava soddisfatto.

«Babbo,» chiese Susanna afferrando un braccio del bell’alpinista brizzolato, «posso tornare alla roulotte con loro?!» «Anch’io, anch’io,» disse subito Sonia, afferrandone l’altro.

La realtà mi fu chiara: Peppe Scimmia era troppo affamato per tentare la scalata, Giorgio troppo grasso e Susanna e Sonia, troppo femmine, avrebbero rinunciato a tutto per un bast… per un uomo. Quindi Sherpa avrebbe scelto me per attaccare la vetta. Ma doveva sbrigarsi, erano già le 12:00 e avevamo solo un’ora per arrivare sul Vettore dell’Annapurna. Il mio accendino era scarico e non potendo sciogliere la neve per berne, bivaccare in notturna avrebbe significato morire assiderati a meno cinquanta gradi sotto lo zero.

«Salgo con Franco che non c’è mai stato. Per voi va bene, ragazzi?» Chiese Sherpa ai due vecchi compari di avventure. Loro annuirono, invidiosi nei miei confronti ma coscienti fosse la scelta giusta.

«Sì, ci sono stato cento volte,» mentì Raffaello. «Sì, porco il clero,» soggiunse Peppe, «spero che tua moglie abbia buttato la pasta. Ah, ricordati di ridarmi la cassetta, la mia si è usurata e devo farne una copia».

«Non preoccuparti.» Lo rassicurò Sherpa, «la tengo a caro». E si allontanarono, salutandoci con la mano prima di scomparire da dove eravamo venuti. Giorgio fu l’ultimo a svanire, goffo come un orso pieno di miele. Ora che ci ripenso, durante il pranzo, fra un panino e l’altro, lo avevo visto nascondere una piccola busta rossa nello zaino rosa Invicta di Susanna, ma per quello che me ne importava allora di queste cose, non ci feci praticamente caso, dimenticando l’accaduto, almeno fino ad ora.

Io e Sherpa attaccammo l’Annapurna, costeggiando inizialmente il lato sinistro del lago, rampa di lancio per l’avvincente vetta. In cordata con il laccetto che mi ero portato da casa, salivamo come Edmund Hillary e il suo sherpa Tenzing Norgay erano saliti per la prima volta sull’Everest in quel lontano 29 maggio 1953: stanchi, senza cibo e con solo attrezzature Mohammad Mountain’s.

Il vento tornò a farla da padrone, questa volta forte delle nuvole. Il bianco era l’unico colore rimasto e passo dopo passo smettemmo di parlare per risparmiare ossigeno. Ogni tanto mi voltavo, fra i turbinii della neve come polvere, per constatare che Sherpa, col suo carico, ci fosse ancora. A quelle quote e senza bombole, alle volte credevo restasse di lui solo il miraggio. Ogni movimento era ormai impossibile per chiunque non fosse un alpinista esperto come noi, là oltrepassando spaccature nella roccia profonde come abissi, dove ci aggrappavamo a lame di ghiaccio tagliente pur di aggrapparci alla vita.

Zoppicavo, il sassolino nella scarpa non era più accettabile. Dovevo toglierlo, ma poi Sherpa sarebbe stato costretto ad amputarmi la gamba incancrenita. Non volevo morire né rimanere menomato senza prima raggiungere il mio obbiettivo. Molti erano morti in quell’ultimo tratto dell’Annapurna, che per sessanta cime, teneva per sé quaranta anime. Al Lago, me lo aveva ripetuto Peppe Scimmia, grattandosi ridendo il petto villoso sotto alla camicia rossa da falegname, rigorosamente sbottonata anche in quota: «Ahah! Non ti fa vedere i contenuti speciali?! Ahaha!».

Non c’era niente da ridere, gli alpinisti nei contenuti speciali della VHS erano stati lasciati indietro dai compagni perché oltre gli ottomila non si ha la forza per trasportare sé stessi, figuriamoci un carico umano; senza contare che le pale degli elicotteri di salvataggio non riescono a girarvi per via dell’aria estremamente rarefatta.

Stavo per chiedere a Sherpa i suoi scarponi. Ero certo che si sarebbe sacrificato per un occidentale: mi sarebbe bastato far leva sui sentimenti da focolare domestico. Nella nebbia nevosa, già immaginavo di chiudere le palpebre congelate a Sherpa, per poi lasciarlo indietro, nell’unica notte all’agghiaccio che la montagna concede a un uomo. Una, sì, ma eterna.

Sentiero dopo sentiero, salita dopo salita su per il diamante di ghiaccio, sentivo di scomparire sostituito dal dolore che provavo al piedino, ma non potevo fermarmi e non potevo piangere, perché le lacrime sprecavano acqua e si congelavano sul mio volto scavandone la pelle.

«Sei stanco, Franco?! Dai che ci siamo quasi.» Non compresi perché dovette mentirmi quelle parole, non ero una ragazza.

«Sì!!» Urlai nel vento bianco, «giochiamo a scambiarci gli scarponi come nelle vere famiglie nepalesi, Sherpa?!»

Non rispose, non ne aveva più la forza, era come stregato da qualcosa. Diagnosi del medico nella cassetta: ipossia.

Ora non volevo più i suoi scarponi, volevo salvarlo, quindi feci forza tirando per tendere il laccetto che univa le nostre vite, ma questo si spezzo e caddi ad angelo nella neve, dopo essere sbucato sopra alle nuvole in uno sbuffo. Alzai lo sguardo, e provai ottomila volte l’emozione di quando per la prima volta ero riuscito a salire sullo scivolo del parchetto comunale. Ero finalmente il primo bambino sulla vetta di un Ottomila. Eppure, parte di me non ce l’aveva fatta.

«Babbo! Non morire!» Urlai voltandomi verso il pavimento di nuvole sotto di me. «Babbo! Rispondimi! Babbo!!!»

Ma ero rimasto solo nell’empireo della montagna, dove c’era una monumentale croce in ferro rugginoso con su infusa una iscrizione: [Vettore, 2476 m]. La abbracciai, sconvolto dal sole ritrovato. Poi infilzai a terra i bastoni magici che Sherpa mi aveva donato, e annodai ai due la bandiera Mohammad Mountain’s della mia spedizione distrutta dalle avversità. E guardandola mi inginocchiai nel freddo, dove piansi, come un bambino che avesse perso, più che la sua compagnia di nepalesi sul libro paga, la sua vera famiglia.

«Franco!» Era Sherpa! che lentamente sbucava anche lui dalla coltre dove lo avevo sepolto, «Guarda, una stella alpina! portala a mamma! Ma mi raccomando, non dirlo a nessuno, soprattutto a quello della forestale.»

«Babbo, dove siamo, sull’Annapurna?!» Singhiozzai.

«No, Franco mio, siamo sul Monte Vettore, nei Sibillini, la vetta più alta… ma delle montagne più basse del mondo!»

Lo strinsi più di quanto avessi stretto la croce, perdonandolo per non avermi mai fatto vedere i contenuti speciali. E chiedendogli, in quel momento magico fra padre e figlio: «Mi compri le carte dei Pokémon?!».

«No.» Fu la risposta di Sherpa, il mio babbo; nonché vostro nonno.

«Scattammo una sola foto di quella che ora so essere stata solo una timida impresa appenninica. Poi per scendere a valle Sherpa Nonno Mario mi prese in braccio, perché lo scarpone Mohammad Mountain’s era bucato. Da quello che ricordo, se la fece tutta di corsa per sfuggire a una valanga terribile.»

«Una valanga, papà?!?»

«No, una valanga terribile!»

«E la famiglia ricca di tedeschi che vi aveva superati?! Quella col bimbo che aveva le carte dei Pokémon!?!»

«Tutti morti.»

«Dov’è la foto, papà?!?»

«Appena arriviamo, e se la porta non è bloccata, ma soprattutto se la Tesla non deciderà di andare ancora una volta dove vuole!» – Dissi al cruscotto anziché alle mie figlie, perché l’auto mi stesse bene a sentire – «ve la mostrerò».

Ed eccoci nella mia vecchia casa, che trasuda anni ’90 da ogni angolo, con le sue piastrelle colorate, i fiori finti e la televisione a tubo catodico con annesso lettore VHS. Per non parlare della carta da parati con stampate le montagne appesa nella camera che fu delle mie sorelle…

Le bambine corrono per le stanze come pazze, mentre io ed Elettra cerchiamo di ritrovare quella singola foto nella credenza delle foto, fra migliaia di altre scattate e sviluppate da mio padre nella vecchia camera oscura in soffitta.

«Continua tu, Elettra, devo cercare un’altra cosa. Eccola! Ora ci arrivo da solo sopra alla credenza del K2!»

«Cos’è, Franco?!»

«La cassetta, finalmente potrò vederne i contenuti speciali.»

«Franco, amore, funziona il videoregistratore?!?»

Funzionava, la lucina rossa si accese, bastò togliere la polvere con un soffio forte e attaccare la spina.

Elettra e le bambine si misero sul vecchio divano impolverato e guardammo tutto il documentario principale, dal Shishapangma al Gasherbrum II (8035 m-13), e poi dalla cresta del Broad Peak (8047 m-12) alle voragini nell’Hidden Peak (8068 m-11); la mia Annapurna, l’unico Ottomila della mia vita, e poi su di nuovo fino all’Everest, il punto limite oltre il quale babbo Sherpa Mario non mi permetteva di guardare e oltre al quale da scalare restano solo le stelle. Poi lo schermo bombato divenne nero e subito dopo Elettra coprì gli occhi alle bambine con le mani, come fece Sherpa con me quando dicemmo addio al nostro yak.

«Franco, toglila! Toglila!»

La tolsi dal videoregistratore e ne lessi l’etichetta, scritta da Peppe Scimmia con un pennarello rosso nel 1998. Prima la lessi con gli occhi dell’esperienza, quelli di quando ero bambino, leggendovi [ANNAPURNA], poi la lessi per la prima volta con gli occhi di un adulto: c’era scritto: [PORNO ANNA].

Fine.

Contenuti speciali del racconto – La busta rossa

Volevo sapessi, a beffa del mio silenzio,

che sono salito a fatica fin quassù

solo perché c\’eri tu.”

Giorgio R.

Non la migliore delle dichiarazioni d’intenti amorosi, devo ammettere. Tuttavia Elettra, pettegola, mise a soqquadro casa per cercarla. Infine la trovò, nel vecchio zainetto rosa Invicta di Susanna. Era ancora sigillata.

La foto:

Autore: Francesco Maurizi

(La storia, i luoghi e i personaggi di questo e di tutti gli altri racconti presenti in questo sito, sono frutto della fantasia dell’autore degli stessi, Francesco Maurizi, e come tali, sono protetti dal diritto d’autore.)

Il racconto è finito, per ora. Grazie per il tuo tempo e, se ti va, condividilo!

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