[Intervista ad Alan Scuro – Appunti di Lira sul pilota del Babi-Tob: Bobik, il cuoco ammuffito – 23/02/2023 – Li scrivo in macchina mentre cerco di insegnare ad Alan come si guida un’auto, quindi non so se li finirò.
Sulle sponde dell’Eufrate, non molto tempo fa c’era ancora un piccolo villaggio di pescatori, sopravvissuto ai recenti salti in lungo della storia.
Il villaggio era alla fame da quando il nuovo sacerdote Siro, piantando un pugnale di cristallo nel cuore del padre Nabuko, aveva preso il comando del Tempio.
Siro era forse l’ultimo tiranno vecchio stampo. Difatti da quando nel 1983 aveva preso il potere, aveva requisito tutte le terre, le barche e le altre fonti di sostentamento, col solo scopo di ridurre il villaggio alla fame.
La sua perfidia era unica. Si dice addirittura che avesse fatto ingerire quarantuno spilli di piombo rovente a un povero ladruncolo, trovato con un sacchetto contenete quarantuno bacche rosse, nemmeno troppo commestibili.
Così, prendendo i villani per la gola, Siro era riuscito a farsi dare la cosa che più bramava: le loro figlie.
Ogni anno, per tre anni, a ottobre, chiunque avesse una figlia femmina in età fertile, non gli importava quale fosse l’età, doveva portarla al Tempio e là doveva abbandonarla per un intero mese.
Anche alla mamma di Bobik era toccato quell’infausto destino, e per due volte la ragazza aveva partorito una figlia femmina. Ma al terzo e ultimo anno di soprusi, con la nascita di Bobik, il primo e unico maschio nato nel villaggio da quegli harem ottobrini, Siro la smise con le sue pretese. Aveva raggiunto il suo scopo: un erede maschio nel minor tempo possibile.
Tuttavia, non appena la mamma di Bobik comprese che Siro le avrebbe sottratto il figlio, fuggì inseguita dalle Vergini delle Lische, guardia scelta del sacerdote, e nascose la prole sotto una barchetta in risacca, condannandosi alla fine spettante ai traditori: venne gettata nel pozzo di spine all’esatto centro della Sala Grande del Tempio.
Semiramo, modesto pescatore forzatamente a servizio del tiranno, aveva infine trovato i tre bambini sotto la sua barchetta, e portandoli in una baracca al di là del fiume, che aveva costruito per alcuni suoi traffici di gusci di gambero, là li aveva allevati come figli.
In una sera tersa di otto anni dopo, prima ancora che le stelle balenassero dal manto notturno, Bobik stava seduto sulla ridente polena della barchetta di Semiramo, giunto a portare agli sventurati i pochi viveri che era riuscito a sottrarre dalle dispense del potente Siro.
Guardava il cielo, Bobik, via via sempre più cosparso di puntini luminosi, e ciucciava una lisca di pesce come si fa con un lecca lecca.
– Un giorno ucciderò Siro e sfamerò il nostro popolo, – si diceva Bobik, sfilandosi una spina di pesce dal palato.
Certo è che non era uno spiedino di capra e cipolle, e questo il bambino lo sapeva, ma era pur sempre un lauto pasto rispetto a quello che erano stati il pranzo e la colazione.
A un tratto, Bobik vide sfrecciare nella notte una enorme pentola nera, col coperchio ma senza manici, che rallentò la sua discesa fino a lambire la corrente dell’Eufrate, da dove per un istante parve fermarsi a osservare il loro falò. Tuttavia non sembrò averli visti, perché in un boato sfrecciò verso il tempio a tutta velocità, alzando due muri d’acqua al suo passaggio.
– Cos’era quella pentola volante? – chiese Bobik alle sorelle intente a preparare la zuppa.
Ma gli rispose Semiramo, che non troppo lontano stava pisciando contro un albero; perché l’anziano, pur non avendo visto, sapeva: – Siro è tornato, ma non abbiate paura figli miei, qui sarete al sicuro. Speriamo che quest’anno almeno una delle spose di quel bastardo sia riuscita nell’impresa di dargli un secondo erede maschio.
Semiramo non poteva più sopportare i soprusi sulla popolazione e quegli harem ottobrini, subito ricominciati, non appena la scomparsa nel nulla di Bobik, più efferati e sanguinosi che mai.
Dopo la zuppa di lische e gusci di gamberetto, Semiramo salutò i tre bambini raccontando loro la verità sulla loro stirpe, e con un peso in meno nel cuore guadò il fiume fino al villaggio, da dove non fece più ritorno.
Qualche giorno dopo, per la fame, Bobik e le sorelle si erano spinti nella corrente nel disperato tentativo di acciuffarvi un pesce. Ma quello che vi trovarono fu solo un altro pensiero di morte.
In lontananza, da dove solitamente spuntava la polena ridente di Semiramo, quel giorno spuntarono decine di polene raffiguranti la Fenice delle Lische, simbolo del Tempio e dunque, del tiranno Siro. Secondo la leggenda, come la normale fenice, la Fenice Delle Lische anche si incendiava nel morire, ma era candida e candida risorgeva dalle sue ceneri con le piume forgiate in aghi e col becco affilato come uno stiletto. Dato che aveva solo due vite, quell’animale mitologico risorgeva più forte, per non morire la seconda e ultima volta.
Spaventati, Bobik e le sorelle cercarono di tornare a riva, ma nella concitazione del momento tralasciarono quegli accorgimenti utili a resistere alle feroci correnti dell’Eufrate, e in men che non si dica, come strappati via dal fondale da una mano invisibile, furono preda delle acque e del buio.
Bobik, ancora completamente fradicio e tremolante, si risvegliò chissà quante ore dopo, in una cella le cui pareti di pietra erano infestate da una strana muffa rossa.
Il suo pensiero andò subito alle sorelle Ishtar e Samas, che non erano lì con lui, ma alle sue grida di pianto e disperazione, la donna velata a guardia della cella, che dall’armatura Bobik comprese essere una delle Vergini Delle Lische, rispose con lo sguardo: – Le tue sorelle non esistono più.
Aveva sentito parlare delle Vergini delle Lische, un gruppo di donne guerriere votate al silenzio e alla castità, da sempre al servizio dei tiranni del Tempio, ma Bobik non ne aveva mai vista una prima in carne e lische.
La vergine indossava un’armatura di fogli d’avorio, sotto la quale un manto bianco le scendeva drappeggiante fino agli schinieri dorati. Aveva un velo bianco a coprirle il volto, sopra al quale troneggiava un elmo d’avorio cosparso di spine. L’arma della vergine era un’asta, culminante in una piastra piatta di fusi aguzzi, una sorta di scopa micidiale per intenderci. Brandendola, la soldatessa spiccava su quell’ambiente umido e tetro, e il suo silenzio, negli anni in cui fu lei la sola a sorvegliarlo, fu l’ennesima piaga che Bobik il prigioniero dovette subire.
Guardando quella zuppa rossiccia che pareva di rape ma senza dentro rapa alcuna, Bobik rimpiangeva il sapore aspro ma deciso delle lische di pesce e dei gusci di gamberetto con cui Semiramo lo aveva cresciuto. Una sensazione del tipo “si stava meglio quando si stava peggio”, per intenderci.
Non c’erano finestre nella sua cella, perché Siro non voleva solo privarlo della libertà, voleva anche che Bobik la dimenticasse. Non c’erano fessure nel muro dalle quali potessero uscire topini a cui dare un nome. Non c’era una branda, non c’era una latrina – solo un vaso – e nemmeno una sedia, o un tavolo su cui pregare il buon dio Marduk, che pure non c’era. C’era solo Bobik, il passare delle ore e dei giorni e quella guardia che lo sorvegliava a vista, da mattina a sera, oltre le sbarre, al bianco velo e al silenzio che l’avvolgeva.
Ma col passare del tempo, in quella cella non ci fu nemmeno più Bobik.
Dopo un lustro, la sola zuppa di rape senza rape aveva ridotto Bobik a crescere come un ragazzo emaciato e dalla pelle rossiccia, una lisca di pesce dallo sguardo ferino. I capelli gli erano cresciuti a dismisura, ma né lui né la guardia sembravano avere a cuore il suo aspetto. Le unghie invece, quelle Bobik le curava eccome, affilandole contro una pietra ruvida del pavimento come si fa con una lima.
Restava tutto il giorno seduto in un angolo della cella e spesso anche la notte, che senza finestre non gli era possibile distinguere dal giorno, tramando in silenzio di uccidere la vergine Delle lische, ma non per fuggire, per ucciderla.
Perché per Bobik il bianco di quella donna era divenuto il silenzio stesso, in contrasto con la muffa rossa delle pareti, che col tempo era passata alla pelle di Bobik, poi ai pochi muscoli e alle ossa del ragazzo. E infine gli aveva ammuffito l’anima, privandolo di ogni raziocinio e di quella sua puerile gioia di vivere, che gli aveva permesso di vedere un lecca lecca in una lisca di pesce. Privandolo, della sua umanità.
Dopo nove anni Bobik era egli stesso la muffa, tanto che quando apriva gli occhi, sembrava aprirli la parete.
(Continua…)
- Scrittore, niente contenuti speciali?
- No, zitto Alan Scuro, o il lettore perderà il filo della storia di Bobik…
- Va bene, scusa…
- A venerdì.
- A venerdì.
L’Episodio VII di Alan Scuro – Scuola guida (Seconda parte) – verrà pubblicato, sempre qui, il giorno 03-03-2023, alle ore 00:00.
Grazie per il vostro tempo. L’autore, Francesco Maurizi
(La storia, i luoghi e i personaggi di questo e di tutti gli altri racconti presenti in questo sito, sono frutto della fantasia dell’autore degli stessi, Francesco Maurizi, e come tali, sono protetti dal diritto d’autore.)
